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Morti per parto, Lorenzin: «Indagare caso per caso su tutta la catena dell’assistenza»

di B.Gob.

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24 Esclusivo per Sanità24

Sette morti in cinque giorni sono uno scherzo della statistica o è il caso di ricorrere all’abusatissimo termine “malasanità”? Mentre gli ispettori inviati dalla ministra della Salute per far luce sui decessi di 4 gestanti e tre neonati di Torino, Bassano del Grappa, Foggia e Vicenza sono ancora al lavoro - l’unico dato certo riferito da Lorenzin è che nel caso dell’ospedale Sant’Anna di Torino «non risultano responsabilità dirette. Però - ha precisato - stiamo anche investigando su tutta la fase precedente all’arrivo in ospedale, di questa come delle altre perpuere e quindi probabilmente lì c’è necessità di un rafforzamento di quello che è il monitoraggio e la sorveglianza di gravidanze che possono essere a rischio sul territorio». La strategia annunciata dalla titolare della Salute è «indagare caso per caso, verificare che non ci siano stati degli errori nelle procedure di intervento durante l’accesso in ospedale e durante la presa in carico del paziente e verificare anche quello che è avvenuto prima. Questo perché, pur avendo noi una bassa casistica di donne morte durante il parto, dobbiamo abbassarla il più possibile e l’unico modo per farlo è studiare tutti i casi dove si sono verificate queste tragedie per poterle prevenire laddove è possibile. E poi purtroppo, ahimé sembra assurdo pensarlo, si può ancora morire di parto», ha concluso.

Gli ultimi dati, riportati a novembre scorso dal Rapporto globale sulla mortalità materna realizzato dall’Oms in collaborazione con Unicef, Unfpa, Banca Mondiale e la Divisione Popolazione delle Nazioni Unite, parlano intanto di un’Italia eccellente, ai vertici delle classifiche dei Paesi con i più bassi tassi di mortalità materna: 4 morti materne ogni 100mila nascite tra i migliori al mondo ai livelli di Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti.

Eppure. Oltre all’alea che sempre accompagna l’evento parto, certo è che l’Italia mostra ancora nodi irrisolti . Come la realizzazione di un’efficiente rete per il trasporto neonatale, la chiusura delle strutture con meno di 500 parti l’anno e la lotta senza quartiere all’abuso del cesareo, che supera tassi del 50% in Campania. Lorenzin oltre ad inviare gli ispettori ha ripetuto in questi giorni drammatici la sua ricetta: «Bisogna partorire in strutture sicure che abbiano l'h24 della pediatria, che abbiano accesso a una rete neonatale, che abbiano la sub-intensiva per la mamma. E nei territori in cui questo non avviene sempre ci deve essere una rete di emergenza in grado di poter intervenire nel caso di una sofferenza della madre o del bambino». Poi, ci sono gli errori, che causano sofferenze e comportano costi stellari in termini di contenzioso. «Non ci sono solo i bambini che nascono morti - ha proseguito la ministra -: ci sono anche bambini che hanno sofferenze durante la nascita, che provocano degli handicap per tutta la vita e quindi bisogna abbassare ogni fattore di rischio al limite di quello che è l’imprevedibilità che purtroppo c’è in tutte le cose, anche in queste».

E mentre il deputato e responsabile Pd Federico Gelli annuncia la richiesta alla presidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera di un’indagine conoscitiva per fare il punto sulla sicurezza dei punti nascita, professionisti e società scientifiche intervengono nel dibattito. Da una parte la Federazione nazionale collegi ostetriche (Fnco) sottolinea l’importanza del rapporto paritario “one to one” tra la donna gravida e l’ostetrica, cosa che in alcuni casi per le carenze di organico non si riesce a realizzare, e auspica la piena applicazione della direttiva Ue sui turni di riposo; dall’altra la Società italiana di emostasi e trombosi (Siset) in una lettera inviata al ministero della Salute chiede di sgomberare il campo da inesattezze circolate in questi giorni e ricorda il rischio di reazioni mediatiche fuorvianti e «potenzialmente pericolose per le donne stesse». Ad esempio - spiegano gli esperti Siset - «sui media i test di trombofilia ereditaria vengono definiti come “salvavita” se eseguiti alle donne in gravidanza. Ma come sostengono linee guida di società scientifiche nazionali e internazionali, la donna in gravidanza non deve diventare oggetto di esami e terapie che non sono basati sull'evidenza e non danno alcuna garanzia di migliorare l'andamento della gravidanza né di prevenire la morte fetale».


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