Aziende e regioni

Lo zibaldone delle cure intermedie: così cambia l’offerta sotto la spinta delle riforme

di Verdiana Morando e Valeria D. Tozzi (Cergas e Sda Bocconi)

Le cure intermedie sono presenti nel vocabolario degli operatori da circa dieci anni e nell’edizione 2010 del Rapporto Oasi si ricostruì la pluralità di servizi che ricadevano sotto questa etichetta, ovvero un’ampia ed eterogenea gamma di soluzioni finalizzate a colmare la domanda di continuità e integrazione tra ospedale e territorio.

Di fronte a questa varietà, nel rapporto Oasi 2016 si è inteso esplorare e aggiornare la situazione italiana odierna, muovendo da due ipotesi di fondo. In primo luogo, il forte impulso alla riorganizzazione della rete di offerta ospedaliera e di quella territoriale continuano ad essere lo stimolo principale alla formulazione di servizi di natura “intermedia” per garantire la connessione e integrazione tra le due filiere.

In secondo luogo, l’invecchiamento della popolazione e l’emergenza della fragilità connessa alle condizioni croniche ha riportato l’attenzione sul presidio dei servizi per la stabilizzazione e il recupero funzionale del paziente che sempre più si collocano in un spazio di confusione e sovrapposizione tra le diverse soluzioni definite come post acuzie e le cure intermedie, laddove presenti. Le scelte di presa in carico per la stabilizzazione, in questo momento, risultano determinate dall’offerta piuttosto che dalla domanda e dal bisogno assistenziale.

Terzo, infine, occorre uno sforzo analitico descrittivo per comprendere cosa sta accadendo nel Paese per leggere soprattutto quanto le Regioni hanno messo in campo in tempi recenti in cui la divaricazione tra le diverse configurazioni è assai ampia. Di conseguenza, si intuisce che la tassonomia, i contenuti, i target e le regole di funzionamento di tali servizi possano essere fisiologicamente eterogenei poiché sono chiamati a intermediare due poli (l’ospedale e il territorio) molto differenti su scala regionale.

L’analisi esplorativa mostra come il quadro nazionale presenti oggi tre movimenti nella direzione delle cure intermedie: Regioni che hanno avviato politiche esplicite e organizzato modelli specifici di offerta (Lombardia e Veneto dal 2012, Toscana dal 2013 e Marche dal 2015); Regioni con esperienze aziendali avanzate (Emilia Romagna) o in sviluppo (Piemonte); Regioni (Calabria e Umbria) con interventi su alcuni target specifici (ad esempio gli stati vegetativi) che a tendere potranno rappresentare la base per future elaborazioni sulle cure intermedie.

Gli elementi distintivi della configurazione delle cure intermedie appaiono i seguenti (cfr. figura 1):

a. target: si riferisce alle popolazioni polipatologiche e fragili, aspecifiche sul piano patologico ma con un quadro di bisogni assistenziali definito. Le cure intermedie hanno rimesso in luce il tema della convalescenza del malato in uscita dall’ospedale. Alcune Regioni hanno introdotto dei profili di inclusione e/o di esclusione (ad es. le demenze, la salute mentale e la casistica oncologica). Il tentativo di profilare la popolazione target nasce dalla necessità di mantenere il livello di qualità ed efficacia delle cure e risulta uno sforzo comune a tutte le Regioni impegnate sul tema;

b. Progetto individuale: l’attivazione delle cure intermedie si basa sulla definizione di un progetto individuale di recupero funzionale (Pai o Pic o altro). Da qui, il ricorso alle cure intermedie è finalizzato dalla prognosi e non dalla diagnosi (modello tradizionale di attivazione del setting ospedaliero);

c. Contenuti del servizio: le cure intermedie hanno una doppia natura, oltre ai servizi sanitari vengono infatti organizzate altre attività a supporto del malato e della famiglia, promuovendo modelli embrionali di patient centricity;

d. Durata: le cure intermedie sono sempre temporanee, definite da tempi massimi di degenza in funzione del profilo di bisogno sanitario e sociale e dalla prognosi in uscita. Non solo, la temporaneità esplicita la funzione di transizione di questi servizi, che traghettano il paziente dall’ospedale al domicilio (cd. Step down service, simile alla funzione delle post-acuzie e lungodegenza); oppure organizzano interventi clinico-assistenziali per ripristinare condizioni di autonomia dal domicilio (cd. Step up service), evitando accesso inappropriato in ospedale o l’istituzionalizzazione.

e. Organizzazione del lavoro: le cure intermedie prevedono sempre l’attivazione di team multidisciplinari e interprofessionali, dalla formulazione della prognosi e del progetto individuale alla presa in carico. Questo alimenta la necessità di concentrare competenze e risorse in luoghi di erogazione specifici capaci di sviluppare grandi interdipendenze all’interno di tutta la filiera di offerta. A supporto del governo delle interdipendenze operative tra ospedale e territorio, infatti, sempre più le cure intermedie utilizzano il supporto di centrali operative o agenzie (cd. transitional care) che consentono di organizzare i fabbisogni logistici intorno al malato sulla base del progetto individuale.

Se fino a qualche anno fa il tema delle cure intermedie era sbilanciato nell’area di gioco dei servizi territoriali, oggi si osserva un riposizionamento di queste progettualità tra ospedale e territorio. Non solo, la distinzione dei confini tra le cure primarie e intermedie, di secondo e terzo livello risulta sempre più lasca.

Il confronto con i referenti regionali, infatti, ha messo in evidenza alcuni nodi importanti. Anzitutto, si registra una posizione uniforme e condivisa sulle case della salute che rientrano nell’alveo delle cure intermedie solo quando presentano modelli di servizio ad alta intensità, soluzioni di degenza e un’organizzazione multiprofessionale. Inoltre, è possibile distinguere la lungodegenza, riabilitazione, cure intermedie e residenzialità per anziani solo in presidenza di definizioni normate, in cui si esplicitano target, professionisti, carico assistenziale, tempi di degenza e requisiti.

L’esplosione delle cure intermedie segnala quindi il superamento della visione retorica che relegava la gestione delle condizioni croniche al territorio e di quelle acute all’ospedale. Le cure intermedie oggi colmano il bisogno assistenziale delle cronicità a largo spettro, mostrando piuttosto il rischio di diventare una soluzione unica al “fallimento” tanto della riorganizzazione dell’ospedale quanto dei servizi territoriali, essendo esse stesse definite in modo ambiguo dal decreto ministeriale 70/2015 come una formula di servizio territoriale (extraospedaliera) a vocazione sanitaria. Le cure intermedie, infatti, risultano sempre più centrali in quelle riconfigurazioni istituzionali delle aziende sanitarie che sembrano spingere verso forme di integrazione verticale e i modelli di presa in carico intercettano globalmente i processi erogativi dalla diagnosi al follow up.

Ed è in questa duplice tensione che le cure intermedie diventano il segmento in cui si scaricano alcune tensioni dello storico modello bipolare.

Il dibattito e la definizione delle configurazioni di servizio delle cure intermedie, in una logica di qualità ed efficace, è quindi aperto ed embrionale a livello nazionale e risulta un percorso forzato di riflessione e sperimentazione dei prossimi anni, a cavallo e in sinergia alla riorganizzazione dei modelli di presa in carico ospedalieri e territoriali, sanitari e sociosanitari. Il confronto con le esperienze più mature a livello europeo, in particolare nelle regioni del Regno Unito (Inghilterra e Scozia) e in Catalonia, evidenziano diversi margini di miglioramento. In primo luogo, la natura del setting, ovvero il fatto che le cure intermedie in Italia sono esclusivamente posti letto, soluzioni di degenza extraospedaliera (bed-based), mentre negli altri Paesi stanno evolvendo verso formule di assistenza intensiva al domicilio. Oppure, la composizione professionale e l’organizzazione del lavoro di questi servizi.

Nelle esperienze censite, risulta centrale la figura del case manager infermieristico come cabina di regia del percorso personalizzato e nella costruzione della continuità con gli altri professionisti della rete, tra cui il Mmg quale referente clinico (ad es., negli ospedali di comunità Toscana o Emilia Romagna) e gli altri specialisti (internisti, geriatri o fisiatri). Si tratta di un modello che rimette in discussione non solo le relazioni tra professioni sanitarie e classe medica, ma anche quelle tra gli specialisti storicamente collocati in ospedale.

La risoluzione di tali conflitti sembra quindi risolversi a monte, nei modelli di servizio piuttosto che nel dibattito disciplinare. Un ulteriore elemento di critica è la definizione del target, fondamentale per garantire gli standard di qualità assistenziale erogata: la mancata previsione di un sistema di qualità sui risultati assistenziali deriva in parte dall’eterogeneità dei profili che oggi entrano nelle cure intermedie.

Le soluzioni adottate oscillano tra l’avvio sperimentale dei profili assistenziali o l’esplicitazione delle esclusioni. In questo senso, emerge la difficoltà del sistema di prevedere una flessibilità del modello di servizio e delle competenze richieste.

Un esempio chiaro è la grande assenza della salute mentale e della psichiatria. Solo nel modello Piemontese sono previsti dei posti letto intermedi dedicati alla riabilitazione psichiatrica che derivano dalla riconversione della disponibilità d’offerta preesitente.

Non da ultimo, la mancata esplicitazione del target, in questa fase storica, apre una questione non discussa apertamente sulla sostenibilità delle cure intermedie, nella mediazione tra carico e intensità assistenziale e tetto di spesa della tariffa nazionale extra-ospedaliera.

Anche in questo senso, il confronto con le esperienze europee mostra come la sostenibilità nel lungo periodo delle cure intermedie sia controbilanciata da un graduale spostamento al domicilio di questi servizi.

In sintesi, l’analisi condotta per il rapporto Oasi mette in evidenza sia la necessità di alimentare un network di confronto tra le istituzioni interessate da o che stanno avviando servizi di cure intermedie, sia soprattutto di avviare un sistema di monitoraggio. Il confronto tra modelli regionali consente di esplicitare le dinamiche emergenti e le configurazioni di servizio che possono essere estrapolate: questa traslazione risulta particolarmente promettente per i modelli e sistemi operativi adottati.

In questo senso, il contributo Oasi ha proposto uno schema generale di rilettura delle scelte regionali: il modello delle 5W (what, why, when, who, where) che è stato condiviso all’interno di una comunità di esperti e studiosi nazionali e internazionali. Questo potrebbe essere arricchito da un modello classificazione dei servizi di cure intermedie, oltre il dettato normativo in questa fase di grande sperimentazione locale. Il modello inglese, ad esempio, appare una buona base di partenza nella sua distinzione tra bed based, home based crisis response e re ablement tenendo presente che la ricchezza dell’offerta territoriale italiana è molto più ampia di quella inglese, circoscritta alle cure primarie


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