Aziende e regioni

Solitudine e silenzio nella vita quotidiana durante il Covid-19

di Carla Collicelli *

S
24 Esclusivo per Sanità24

Non è certo la prima volta nella storia che si verifica una crisi di tipo pandemico, che riguarda cioè tutta la popolazione mondiale (pandemos tutta la popolazione) e che produce drammi e sconquassi inenarrabili sia sanitari che sociali. Si ha memoria di malattie di questo tipo dai tempi della Peste di Atene nel 400 a.C. (di cui si stima un impatto in termini di morti di 100.000 persone), e poi a proposito della Peste di Giustiniano (500 a.C. e 100 milioni di morti stimati), della Peste nera del 1300 (50 milioni di morti stimati), e dell’Influenza Spagnola del 1918-1919 (con una stima di morti nel mondo di 50 milioni di persone). Molto più ravvicinate le pandemie della seconda metà del secolo scorso (anche grazie allo sviluppo dei mezzi diagnostici): l’Influenza Asiatica del 1957-58 (con 1 milione di morti), l’Influenza di Hong Kong (1968-1970, 1 milione di morti), l’HIV (32 milioni di morti), la Sars (2002-2003, 770 morti), l’Influenza suina (2009-2010, stime tra 150.000 e 600.000 morti), Ebola (2014-2016, 11.300 morti), e ora Covid-19 (ad oggi 160.000 morti accertati).
Eppure anche in questo frangente è come se fosse la prima volta. Come ha scritto il filosofo sloveno Slavoy Zizek nel suo Virus, solo i film apocalittici, come il profetico Contagion di Steven Soderbergh del 2011, ci richiamano di tanto in tanto a prendere sul serio rischi tremendi dell’umanità, quali quelli delle pandemie, esorcizzando così le paure, ma non aiutandoci nella direzione di una responsabilità consapevole e di una prevenzione adeguata.
Certo, a 6 mesi dall’inizio del dramma, per molti versi ci sentiamo “consapevoli e attrezzati” di fronte alla pandemia, come si esprime su Repubblica di oggi Paolo Giordano. E nonostante le voci critiche, spesso decisamente poco obiettive e ingenerose, e le inevitabili eccezioni del caso, va riconosciuto che la società italiana nel suo complesso ha accettato e vissuto con responsabilità il lockdown, sta rispettando il distanziamento sociale e sta cercando di sostenere una ripresa molto difficile. E soprattutto la sanità ha dato prova di grande resilienza, con la indefessa sollecitudine del personale, con la costruzione in tempi record di nuovi reparti di terapia intensiva, con lo sprint delle ricerche sui vaccini anti-covid e con la progressiva messa a punto delle terapie. È la prima volta in sostanza che, grazie ai progressi compiuti dalla scienza medica, vengono messi in campo strumenti di sorveglianza, monitoraggio e contrasto di portata enorme e globale.
E la drammaticità dell’emergenza e la potenza delle risposte sanitarie messe in campo si rispecchiano nelle metafore utilizzate per descrivere la situazione in questi mesi. Alcune, come quella della guerra, usata soprattutto nei primi tempi, rendono bene l’idea della letalità del morbo e quella dello sforzo immane da compiere per fronteggiarlo. Altre, come quella della tempesta, più volte utilizzata nelle settimane successive, rimanda al dramma delle forze della natura che si scatenano, ma anche alle prospettive di una navigazione coraggiosa e di una ripresa della rotta a tempesta finita o attenuata. Tutte fanno riferimento alla drammaticità di una situazione densa di pericoli ed incertezze, da affrontare con coraggio.
Ma possiamo dirci altrettanto “consapevoli ed attrezzati” rispetto alle dinamiche sociali innescate dalla pandemia ed agli effetti di lunga durata, per ora meno evidenti di quelli sanitari, ma destinati a pesare a lungo nel tempo e forse a stravolgere la vita delle persone dal punto di vista sociale e psicologico?
In realtà, proprio in una giornata come quella odierna, nella quale milioni di bambini tornano a scuola emozionati e accompagnati da genitori titubanti e commossi, si percepiscono l’ansietà e il disagio, sia a livello individuale che di comunità di vita, rispetto ai segni che i 6 mesi trascorsi hanno lasciato dal punto di vista sociale. E poco ci aiutano da questo punto di vista i contenuti rassicuranti della narrazione della crisi. Una “Infodemia”, come è stato detto, infarcita da un lato di allarmismi e discreti livelli di confusione, e dall’altro di una retorica di facile e superficiale ottimismo (“andrà tutto bene”, “ce la faremo”), frutto anche di una sorta di accaparramento, da parte del mondo della comunicazione pubblicitaria, di formule comunicative che si pensa possano attenuare la depressione dei consumatori.
A ben vedere le questioni più rilevanti che la società si è trovata ad affrontare sono quelle sociali e psicologiche che si sono sviluppate all’interno delle abitazioni e tra le persone nel periodo di lockdown, e che ancora oggi sussistono in regime di distanziamento fisico ancora in atto.
Abbiamo infatti vissuto involontariamente una sorta di esperimento sociale anomalo e totalmente inedito, che mai avremmo avuto il coraggio di affrontare se non vi fossimo stati costretti da una emergenza eccezionale. L’esperimento, cui hanno dovuto partecipare, loro malgrado, tutti nessuno escluso, è consistito nella sospensione del tempo, della mobilità e dei contatti umani e sociali esterni alla propria abitazione. Sia che si abiti da soli, sia che si viva con i propri familiari, sicuramente siamo stati tutti colti da una sensazione di profondo stupore rispetto al silenzio delle strade, alle immagini delle città vuote, alla solitudine diffusa. Una prova dura, che ci ha posto di fronte a una realtà sconosciuta e articolata secondo almeno tre tipologie, quella della solitudine totale per alcuni, quella del contatto obbligato e continuo con i propri familiari o conviventi in spazi in qualche caso ristretti per altri, e quella dell’interruzione delle relazioni amicali, scolastiche e lavorative per tanti.
Abituati come eravamo a vivere vite disordinate e frettolose, distratti da mille stimoli spesso superficiali (chat, media, informazioni, pubblicità, divertimenti…), la situazione anomala ci ha messo di fronte in maniera inusuale alla nostra intimità psichica ed al vissuto più profondo delle nostre relazioni sentimentali, interpersonali e sociali. Il silenzio e la solitudine sono diventati uno spazio vuoto nel quale si sono moltiplicati il disagio esistenziale, l'insicurezza e la paura. Paura della malattia, ma anche paura del proprio caos interiore, con i suoi contenuti sia di tipo emozionale (ansia, depressione, preoccupazione per i propri cari) che di tipo razionale (scelte da compiere, analisi critica del proprio vissuto, del proprio impegno lavorativo, compiti d’assolvere).
E non è passata inosservata l’impreparazione di fronte al venire meno degli spazi di intrattenimento e di occupazione del cosiddetto “tempo libero”. È il tema della solitudine dell’uomo moderno, calato in una realtà sociale densa e massificata, che ci vede in gran parte soli nella moltitudine.
Le famiglie con bambini sono state e sono in grande difficoltà, sia laddove genitori attrezzati culturalmente ed economicamente hanno trasformato la casa in una classe di scuola o di asilo nido, sia laddove la carenza di adeguate risorse umane e materiali ha provocato ripercussioni di vario genere sull’equilibrio psicologico e sociale dei soggetti più deboli. Lo sforzo enorme prodotto da molti insegnanti in termini di didattica a distanza è encomiabile e deve farci capir quanto sia importante un uso intelligente delle tecnologie informatiche.
Massimo Recalcati sostiene che il distanziamento sociale era già all’opera ben prima dell’epidemia, e che sussista da tempo una psicopatologia collettiva accompagnata da quella che lui chiama “l’euforia neoliberale e securitaria”, che si rintraccia nella casistica, sempre più frequente, di pazienti che “dichiarano di soffrire per la loro condizione di isolamento affettivo, ma che, una volta in analisi, possono vedere bene quanto questo isolamento coincida, in realtà, con la loro condizione di vita ideale”.
Ma non vi è dubbio che il dramma della solitudine ha assunto negli ultimi sei mesi proporzioni inaudite. Ed è quanto ricorre in molte ricerche empiriche, come quella del Centro di Riferimento Alcologico della Regione Lazio, afferente al Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma 1. Il Centro ha somministrato oltre 400 questionari ad altrettanti utenti nelle ultime due settimane della Fase 1, quando la popolazione era sottoposta alle misure restrittive già da più di un mese. Gli utenti che hanno risposto volontariamente - spiega la Asl Roma 1 in una nota di sintesi - sono prevalentemente donne (74%), con una età media di 41 anni e un titolo di studio superiore al diploma nel 66% dei casi. Il 95% del campione ha una occupazione, e nella maggior parte dei casi il nucleo abitativo è composto da 2 o più persone prescindendo dal grado di parentela.
«Contrariamente al sentore generale che riporta come unica fonte di preoccupazione quella economica - evidenzia la nota della Asl RM 1 -, nel campione analizzato in pochi hanno subito variazioni delle condizioni lavorative e remunerative, facendo prevalere come maggiori fattori stressanti la mancanza di relazione sociale con i propri parenti e conoscenti, i cambiamenti nelle attività quotidiane e un discomfort generato dalla costrizione».
«L’impatto dei fattori restrittivi e dei cambiamenti di vita sui livelli di stress, misurato dalla ricerca, mostra la presenza di una tensione medio-alta ed alta nel 76% dei casi, con un aumento durante il lockdown di sintomatologia ansiosa, depressiva e post-traumatica, nonché disturbi legati alla sfera del sonno», commenta la professoressa Maria Luisa Attilia. “Costretti a vivere in un luogo dove non si vuole stare o con persone che aumentano il livello di stress”.
Dalla ricerca è emerso che il 99% delle persone ha subito situazioni di stress in isolamento. Il 53% ha riferito di essersi sentito stressato per la mancanza di relazione sociale con i propri parenti e conoscenti. Il 10% ha sofferto perché si trovava in un luogo o con persone con cui non voleva stare. Tra le fasce più colpite dalle conseguenze delle limitazioni il 12% vive da solo mentre il 56% si è dovuto confrontare con la didattica a distanza.
E in aggiunta a questi dati, è noto ormai che la fine del lockdown ha innescato un aumento vertiginoso di richieste di aiuto ai centri psichiatrici e antiviolenza, che nelle case rifugio i posti disponibili sono esauriti e che le vittime di violenza domestica sono in aumentano.
È lecito chiedersi però, se la sospensione, la solitudine ed il silenzio ci abbiano insegnato qualcosa di nuovo e di più, sia rispetto al proprio io e alla propria interiorità, che rispetto alla propria vita nella società. Dei drammi abbiamo detto. Ma sarebbe fuorviante fermarsi a quelli, senza tenere conto del fatto che la realtà è fatta di momenti “ombra” ma anche di parti luminose.
In questo senso non mancano le voci che sottolineano come nella pandemia e nell’isolamento a casa abbiamo avuto la possibilità di apprezzare il valore del silenzio contro i "rumori della vita”, sia quelli delle consuetudini della normalità (traffico, intrattenimento, conflitti), che quelli dell’emergenza (ridondanza comunicativa, allarmismi, drammi). Occorre riconoscere ed apprezzare i segnali positivi che provengono da una parte della società rispetto alle opportunità offerte dalla solitudine e dal silenzio che si è creato intorno a noi, non solo in termini di alleggerimento del traffico e dell’inquinamento. Per molte persone si è presentata, a volte per la prima volta, l’occasione di riflettere in maniera tranquilla ed estesa sulla propria esistenza, di provare a selezionare i momenti di scambio e colloquio con gli altri, di vivere forme varie di spiritualità, concentrazione e rilassamento e momenti di religiosità, magari a distanza, ma con particolare intensità. Per tutti si è presentata l’opportunità di rivedere i contenuti e le forme dei propri rapporti familiari, cercando di coglierne la parte essenziale, sfrondando quelle relazioni e quei tempi di condivisione dagli elementi superflui e da quelli superficiali. Per tutti è apparsa in tutta la sua evidenza la necessità di salvaguardare l’equilibrio tra vita lavorativa e vita familiare e sociale, evitando che il lavoro, qualunque esso sia, si espanda fino ad occupare gli spazi che dovrebbero essere soltanto nostri, della nostra vita privata e delle nostre relazioni umane importanti. Per tutti è apparso chiaro il valore della relazione di cura e quello del supporto ai soggetti soli e malati, spesso dimenticati rispetto agli altri impegni della vita.
Al di là delle illusioni rispetto al fatto che “tutto possa tornare come prima”, in molti ambiti della società, si coglie la voglia di ripensare il nostro modello di sviluppo socio-economico, ed in particolare il rapporto tra individuo e comunità, quello tra salute e lavoro e dunque tra sociale ed economia, e quello tra umanità e pianeta. Abbiamo toccato con mano come solo la solidarietà comunitaria sul territorio sia in grado di colmare le lacune di un sistema di welfare che lascia troppe persone sole con i propri problemi sociali e di salute.
Alcune voci istituzionali sono drammaticamente afone rispetto a queste tematiche, se non addirittura mute. In particolare colpisce la debole attenzione dimostrata, specie nella prima lunga fase della emergenza, da chi è preposto a garantire il benessere e la formazione dei nostri bambini e giovani, la categoria che, dopo i malati ed il personale sanitario, più ha sofferto e sta soffrendo del clima di preoccupazione nel quale si trova a vivere e soprattutto del regime di isolamento, dell’allontanamento dalla scuola per almeno 7 mesi, del non poter giocare con i coetanei, del non poter abbracciare i nonni.
Come ha scritto di nuovo Zizek, citando l’episodio evangelico del “noli me tangere”, se siamo tutti martellati dai moniti a non toccare gli altri e, anzi, a isolarci, a mantenere una distanza fisica adeguata, e se le mani non possono raggiungere l'altra persona, il distanziamento impostoci dalla pandemia può essere letto come un invito a riconoscere il valore della dimensione immateriale della relazione umana. “Soltanto dall'interno possiamo avvicinarci gli uni agli altri (…). E soltanto ora, che debbo evitare molti fra coloro che mi sono vicini, sento pienamente la loro presenza, e quanto sono importanti per me”.
Ed anche secondo Recalcati, e dal punto di vista psicanalitico, “la relazione sembra riacquisire un valore proprio in quanto oggetto perduto, ma anche come oggetto spogliato di tutte quelle aspettative performanti che la avevano resa persecutoria”.
In altre parole l’occasione ci permette di riconsiderare il contenuto della vera felicità e del vero benessere, che si alimenta di relazioni umane significative e di valori positivi, e di aprire gli occhi di fronte al fatto che la ricerca del benessere individuale e collettivo è legata strettamente allo stare in pace con se stessi, con le persone attorno a noi e con la comunità di vita. Vivere con il mondo, e non solo nel mondo, in un rapporto pàùositivo e costruttivo con le diverse soggettualità che incontriamo sul nostro cammino. Avere dei veri amici, persone con cui sentirsi affratellati a seguito di una scelta condivisa di valori e di esperienze, e che costituiscono una risorsa umanamente e socialmente insostituibile, uno specchio amichevole ai propri problemi di auto-riconoscimento e posizionamento nella realtà sociale, un supporto al nostro percorso di ricerca spirituale. Ricercare il dialogo ed aprirsi all’accoglienza dell’altro, sviluppando per quanto possibile una identità aperta, inclusiva, relazionale e comunitaria. Trovare conforto nella cultura, nella musica, nella natura con le sue bellezze.

* CNR CID Ethics, Segretariato ASviS
(intervento realizzato per la Associazione italiana di Sociologia della salute)


© RIPRODUZIONE RISERVATA