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Menarini e quella fabbrica delle donne in Russia

di Roberto Turno

A Kaluga in Russia, 180 km da Mosca, ha investito 50 milioni e inaugurato una fabbrica di produzione che già macina farmaci e che a regime dal prossimo anno produrrà 50 milioni di scatolette. Una scommessa in più nel suo portafoglio sparso in 100 Stati. Con un record unico al mondo che finora mai aveva pubblicizzato: i 100 dipendenti di Kaluga saranno quasi tutte donne. Una fabbrica di farmaci fatti dalle donne, ultimo record del Gruppo Menarini, il colosso farmaceutico made in Italy che dell'internazionalizzazione fin da tempi non sospetti ha fatto il suo mestiere e il suo impero. Un business con filiali ora sparse in cinque Continenti e con 14 stabilimenti: nel 2013 ha fatturato 3,275 miliardi, nel 2013 conta di crescere a 3,362 (+2,75).

Cifre da capogiro, che ormai al 73% arrivano dai mercati esteri, "appena" il 27 (circa 800 milioni) dall'Italia. E investimenti totali in R&S, ha annunciato ieri la società, che quest'anno saliranno a quota 270 milioni, dopo i 250 dell'anno scorso.

Menarini Group, azienda farmaceutica fiorentina doc, festeggia i suoi primi 50 anni di internazionalizzazione con nuove scommesse davanti e nuove ambizioni. Ha cominciato nel 1964 in Spagna, poi via via le puntate in Portogallo, l'accordo con la francese Sanofi del 1992 e lo stesso anno l'acquisizione della berlinese (dell'est) Berlin Chemie, quindi nel 2011 di Invida Group a Singapore per consolidarsi nei mercati dell'Asia-Asia Pacifico. Nel mezzo le puntate in Turchia, Messico, accordi per sviluppi di farmaci biotech in Gran Bretagna. Un fiume in piena che il presidente Lucia Aleotti, col fratello Alberto Giovanni al timone dell'azienda dopo l'uscita di scena del cavaliere Alberto Aleotti, vuole far crescere ancora. «Queste sono e resteranno le nostre sfide: la ricerca, gli investimenti per realizzarla, nuovi prodotti. Solo così realizzeremo il futuro della nostra azienda e della farmaceutica italiana».

Perché la "fiorentinità" è, e vuole restare, un marchio di fabbrica dopo qualche anno travagliato. Non è un caso che abbiano battezzato «Florence», in omaggio alla città, il farmaco-spazzino presentato ieri che riduce i danni della chemioterapia e che andrà presto all'esame dell'Emea per l'autorizzazione al commercio. E non è un caso che, dietro insistenze locali, la società acquistata a Singapore abbia cambiato nome in «Menarini Asia Pacific. «Ce lo hanno chiesto loro, faceva made in Italy», non nasconde l'orgoglio Lucia Aleotti.

Ora, che il made in Italy del farmaco non goda di grandissime fortune, e comunque non per tutte le nostre aziende, è ben noto. Anche se resta un classico settore anticiclico. Per non dire di quel "fattore Italia" – regole che cambiano a valanga, tagli a ripetizione, burocrazia, fisco ingordo – che allontana gli investimenti e non attrae più di tanto Big Pharma. ««Per fare il nostro lavoro chiediamo stabilità e certezza di regole. Questi sono i fattori chiave se, con gli investimenti, si vuole puntare alla ricerca e all'internazionalizzazione. E noi vogliamo continuare a investire in ricerca, anche perché vogliamo dare un segnale forte e positivo al Paese in momenti di difficoltà così pesanti», aggiunge il presidente di Menarini.
I dati di mercato presentati ieri parlano da sé. Il fatturato che cresce, gli investimenti che salgono a buon ritmo fino a toccare il 9,1% del fatturato per i farmaci etici. Investimenti realizzati attingendo al cash flow degli ultimi tre anni mantenendo inalterata la liquidità del Gruppo, si assicura. Intanto nel 2013 l'Ebitda chiuderà a 360 milioni, l'8% del fatturato in calo sul 2012, quando toccò i 340 milioni. E ancora in calo a 200 milioni quest'anno. «Ma vogliamo continuare a investire – giura Lucia Aleotti –, ci ascoltassero anche in Italia».