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Screening del seno, i pro e i contro dell'ultima posizione pubblicata sul British Medical Journal

di Marco Zappa (direttore Ons, Osservatorio Nazionale Screening – Ispo Firenze)

Circa una settimana fa è apparso sull'autorevole rivista del British Medical Journal un articolo (Miller et al, BMJ 2014) che riporta un aggiornamento di un trial canadese iniziato agli inizi degli anni Ottanta sull'efficacia della mammografia come test di screening. I risultati dello studio non mostrano alcuna differenza di mortalità per tumore della mammella significativa fra il gruppo in studio (donne di età 40-59 invitate a mammografia annuale più esame clinico) rispetto al gruppo di controllo (donne invitate al solo esame clinico).

Contrariamente a ciò che è riportato nell'editoriale che accompagna l'articolo (Kalager et al BMJ 2014) il risultato non rappresenta una novità: il risultato negativo dello studio canadese era noto fin dagli anni '90. E la comparsa di questo aggiornamento non cambia la valutazione complessiva della mammografia su questo tema. Infatti i risultati di questo trial sono stati già abbondantemente analizzati e inclusi nella valutazione condotta dall'Independent Breast Screening Review, (Lancet 2012) che ha preso in esame i risultati di tutti i trial randomizzati. Quello appena pubblicato dal British Medical Journal è solo un aggiornamento del follow up dello studio canadese che poco aggiunge e non modifica le conclusioni dell'Osservatorio britannico, secondo cui lo screening mammografico riduce la mortalità del 20%. Questa conclusione è attualmente considerata la più autorevole dalla comunità scientifica internazionale - ed è stata confermata anche da un recente studio promosso dall'Osservatorio Nazionale Screening (Paci et al JMS 2012), la rete italiana di coordinamento degli screening oncologici del Ministero della Salute, e realizzato con il contributo di ricercatori di nove Paesi europei.

L'editoriale di accompagnamento sopra citato giustifica l'importanza dello studio per la lunghezza del suo follow up (fino a 25 anni) sia per la qualità dello studio stesso. Entrambe queste affermazioni sono parzialmente corrette. Esiste uno studio lo studio svedese (il Two counties study - Tabar et al Radiology 2011) che ha pubblicato il suo aggiornamento con un follow up più lungo (27 anni) e mostrando una riduzione di mortalità per tumore della mammella del gruppo in studio (mammografia ogni 18 mesi) del 31% rispetto al gruppo di controllo ( che non ha ricevuto alcun invito).
Rispetto alla qualità dello studio canadese anche qui si possono sollevare dubbi fondati. Come riportato in dettaglio in alcune risposte online allo studio (http://www.bmj.com/ ), in realtà lo studio è stato accusato di alcuni peccati originari (dubbi sulla correttezza del processo di randomizzazione, scarsa qualità tecnica delle mammografie effettuate) tali che in precedenti meta-analisi non era stato considerato studio affidabile (IARC 2002). Ma al di là di questi dubbi rimane un fatto incontrovertibile.

Complessivamente abbiamo 7 trial randomizzati sull'efficacia della mammografia. Lo studio canadese è l'unico che non riporta un risultato a favore della mammografia. Complessivamente gli altri riportano una diminuzione della mortalità superiore al 20% quando si confrontano i due bracci nella loro interezza il che significa una riduzione di mortalità di almeno il 30 % per chi si sottopone regolarmente al test (non tutti nel braccio attivo si sottopongono al test).
Se le cose stanno come descritte perché lo studio canadese ha avuto tanta enfasi sui media generalisti? Infatti lo studio è stato ripreso dal New York Times e a catena ha avuto una vasta eco anche nel nostro Paese.
Si tratta di un effetto del tipo "l'uomo che morde il cane"? Cioè rispetto a una convinzione confusa che sottoporsi con regolarità alla mammografia sia beneficiale, affermare il contrario desta clamore e interesse mediatico.
Non credo si tratti solo di questo. In realtà le campagne contro gli screening oncologici partono da più lontano e in parte sono determinate da motivazioni condivisibili. Negli Stati Uniti, ma anche in Europa e nel nostro paese, nel mondo clinico si è affermato per decenni che tanti più esami di diagnosi precoce si facevano, e quanto più ravvicinati si facevano tanto meglio era. Questo ha portato a una situazione da un lato di vorticoso aumento della spesa sanitaria senza che a questa aggressività diagnostica corrispondesse una reale beneficio per la popolazione. Questo bilancio sfavorevole esiste anche a livello della singola persona che sottoponendosi a tutti quegli esami andava incontro a molti effetti negativi (effetti collaterali del processo diagnostico , falsi postivi overdiagnosi etc.). Questa situazione ha fatto partire una reazione culturale che potremmo sintetizzare in un atteggiamento contro la medicalizzazione della società. Fin qui bene.
Il fatto a mio parere negativo è che l'obiettivo di questa campagna culturale si è poi concentrato sui programmi di screening organizzati i quali si muovono in un'ottica esattamente opposta rispetto all'esasperazione diagnostica. Infatti vengono proposti solo quegli esami, e con intervalli definiti, per cui esista una vasta dimostrazione di efficacia e soprattutto un bilancio positivo fra effetti benefici ed effetti collaterali negativi. I programmi di screening, grazie alla loro modalità di funzionamento (invito attivo) riescono a garantire l'accesso alle prestazione a fasce della popolazione che altrimenti ne rimarrebbero escluse. Inoltre, grazie al loro sistema di monitoraggio, riescono a controllare la qualità del percorso.

Lo sforzo dei programmi di screening (tentativo che in ambito clinico praticamente non esiste) è anche quello di comunicare correttamente alle persone inviate il bilancio fra aspetti positivi e aspetti negativi in modo che ciascuno possa fare una scelta consapevole. Uno di questi effetti negativi (ricordato anche nel trial canadese), per quanto riguarda lo screening mammografico è la possibile causa di sovra diagnosi di ogni esame di diagnosi precoce. Riguardo a questo problema - che sulla base dei nostri studi non è della grandezza riportata altrove - 4 casi sovra diagnosticati ogni 1000 donne screenate per 20 anni – esiste un problema non semplice di comunicazione che come Osservatorio Nazionale Screening e come Gruppo Italiano per lo Screening Mammografico stiamo affrontando. Entro l'anno proporremo a tutti i programmi di screening italiani una lettera tipo di invito che contenga la migliore descrizione possibile di questo problema.
In conclusione, al di là del clamore, si tratta di uno studio non nuovo che non cambia lo stato delle conoscenze ma che comunque ci spinge a fare meglio.