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Come «salvarsi» dalla medicina

di Donatella Lippi, Storia della Medicina - Università di Firenze

«Si credeva che Apollo, dio della medicina, fosse anche quello che mandava le malattie: in origine i due mestieri ne formavano uno solo; è ancora così» (J. Swift 1706-1726).
Facili aforismi disegnano il rapporto medico-paziente, nel segno di un invito a prendere le distanze da farmaci e dottori. E non solo nel senso di quelle situazioni iatrogene, che pavimentano il corso trionfale della medicina o degli sbagli che ne rappresentano la caducità.

Aprile 1492: al capezzale del Magnifico Lorenzo de' Medici, accorreva, tra gli altri, Lazzaro da Pavia, medico del Duca di Milano, il quale, «ne quid inexpertum relinqueret preziosissima quaedam gemmis omne genus, margaritisque conterendis, medicamenta tentabat». Niente doveva essere lasciato di intentato. Somministrò, allora, all'illustre paziente un composto di polvere di perle e di pietre preziose, stemperate in una pozione, tanto improbabile, quanto dispendiosa, molto verosimilmente accelerandone la morte.
Un rimedio peggiore del male, ma formulato sulla base della lettura astrologica del destino di un facoltoso uomo di genio.

Già Petrarca aveva messo in guardia papa Clemente VI, invitandolo a non dare ascolto alla turba dei medici di cui si circondava, che nulla di buono potevano fare per la sua salute.
I medici, con il loro "latinorum", con le loro prescrizioni criptate, disseminate di arabeschi incomprensibili, hanno suscitato, da sempre, reazioni ancipiti: curiosità e timore, speranze e diffidenza.
In molte circostanze del passato, evitare di fare ricorso alla medicina ha rappresentato, per i ceti inferiori, una maggiore garanzia di sopravvivenza, o, almeno, la possibilità di un più naturale e fisiologico trapasso.

Per questo, soprattutto a partire dai secoli del Medioevo, la prevenzione ha giocato un ruolo fondamentale: Melius et certius fieri potest sanitatem presentem custodire, quam amissam recuperare (Bartolomeo di Salerno, XII sec. d.C.).
In mancanza di presìdi terapeutici efficaci, la salute era affidata al rispetto delle norme contenute nei Regimina, che valorizzavano la dieta, in senso classico, lo stile di vita, comprendente tutti gli aspetti del quotidiano, individualmente modificabili.

Un percorso, per certi aspetti aristocratico e privilegiato, proponeva l'accurata selezione dell'ambiente di vita (aer), dell'alimentazione (cibus/potus), dell'esercizio fisico (motus/quies), del rapporto sonno/veglia (somnus/vigilia) e inanità replezione (inanitas/repletio), invitando a evitare le cause di stress (accidentes animae).
Il rispetto di queste norme avrebbe consentito di conservare la salute, evitando il ricorso a medici e medicine.

«Che i medici scusino un po' la mia libertà, perché... ho concepito odio e disprezzo per le loro dottrine: quest'antipatia che ho per la loro arte è in me ereditaria. Mio padre ha vissuto settantaquattro anni, mio nonno sessantanove, il mio bisavolo quasi ottanta, senza aver assaggiato alcuna sorta di medicina». Così scriveva, intorno al 1580, lo scettico Montaigne, una delle mille voci che si sono levate ad esprimere dubbi, incertezze, disappunto e rabbia su medici e medicine.
«Le sostanze che i dottori prescrivono come medicamenti, sono in gran parte venefiche e atte a provocare malanni. Nella libreria medica molti sono i libri che trattano de' Rimedi de' mali - non uno ch'io sappia, che si occupi dei Mali de' rimedi» (C. Dossi, 1870-1907).
Il medico, infatti, è rimasto a lungo sospeso tra sincero velleitarismo e colpevole impostura, in un elenco di accuse, che sottolineano la natura disonesta del suo operato, l'interesse venale da cui è mossa ogni sua azione, la vanità dell'atto curativo, le tenebre infide del suo linguaggio.
Oltre alle considerazioni di impostazione eminentemente scettica, che erodono il sapere medico sin alle sue fondamenta, lo beffano e lo scherniscono, i medici sono stati duramente bersagliati, anche in quanto categoria socio-professionale: «Dottore. Un gentiluomo che prospera con le malattie e muore con la buona salute» (A. Bierce,1911).
Sono luoghi comuni scontati, che sono stati fissati dall'iconografia e dalla letteratura.

Ma altre pagine nella storia della medicina si aprono su scenari più complessi, su dilemmi etici che vanno al di là dell'ironia e della satira.
Allgemeines Krankenhaus di Vienna: correvano gli anni di metà Ottocento. Nell'ospedale, due padiglioni per il parto: nel primo reparto, si trovava anche la scuola di specializzazione degli studenti di medicina, nel secondo la scuola per le ostetriche.
La mortalità per febbre puerperale mieteva morte in modo fortemente differenziato fra i due padiglioni, arrivando, nel primo, al 96% nel maggio del 1846.

Nonostante i vari tentativi di cambiamenti di turni e di reparto, la mortalità seguiva fedelmente gli studenti.
Ben lo sapeva la donna che si presentò, dopo che era terminato il turno di accettazione nel padiglione del prof. Bartch e iniziava quello del prof. Klin: «... Eccola a supplicare, a implorare perché la si lasci entrare da Bartch in nome della sua vita, che chiede per gli altri suoi figli... questo favore le viene rifiutato. E non è la sola».

Non le influenze cosmiche, telluriche, igrometriche, non la vetustà degli edifici, ma le mani dei medici e degli studenti, che visitavano le donne dopo le dissezioni, erano la causa delle morti, veicolando una "sostanza morbifera cadaverica" che disseminava l'infezione.
La sopravvivenza, che indossava l'abito della sorte e del caso, era legata soltanto alla fatalità dell'accettazione.

La responsabilità dei medici, denunciata da Semmelweis, sarebbe stata accertata soltanto anni più tardi, quando l'affermazione del paradigma batteriologico ne avrebbe trovato le evidenze.
Ma la (auto)difesa del paziente doveva passare attraverso la contestazione del monopolio delle conoscenze, del controllo della scienza e dei rapporti sociali tra i generi: «Semmelweis era un genio, ma anche un pazzo, da ciò il suo fallimento. Dovettero passare altri vent'anni perché Joseph Lister, dalle pagine della rivista inglese "Lancet", lanciasse il suo appello per l'antisepsi in chirurgia in modo più chiaro, più persuasivo e più rispettoso. Dopo centoquarant'anni di disastri provocati dai medici, tuttavia, vien da chiedersi se non ci voglia proprio un pazzo per mettervi fine». (A. Gawande, 2008).