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Decidere insieme al paziente: strategia efficace per ridurre i costi?

di Nino Cartabellotta, presidente Fondazione Gimbe

La crescente enfasi sull'assistenza centrata sul paziente richiede ai medici sempre più tempo e sforzi per coinvolgere i pazienti nelle decisioni terapeutiche; di conseguenza, è indispensabile conoscere i reali benefìci del processo decisionale condiviso (Pdc) - shared decision making - che ha due obiettivi fondamentali: fornire ai pazienti informazioni complete sul profilo rischi-benefìci delle diverse opzioni terapeutiche e integrare nel processo decisionale i loro valori e loro preferenze.

Le ragioni che sostengono il Pdc sono tradizionalmente due: innanzitutto, i medici hanno l'obbligo etico di coinvolgere i pazienti nelle decisioni terapeutiche perché sono proprio loro - insieme a familiari e caregiver - a "subire le conseguenze" di queste decisioni; in secondo luogo, le evidenze dimostrano che un maggiore coinvolgimento dei pazienti li rende più informati e consapevoli nel valutare rischi e benefìci delle diverse opzioni terapeutiche, oltre che più soddisfatti delle consultazioni cliniche.

Più recentemente, nella ricerca di nuove soluzioni per contenere la spesa sanitaria, il Pdc è stato invocato come strategia per ridurre gli eccessi terapeutici (overtreatment), partendo dal presupposto che pazienti meglio informati dovrebbero orientarsi verso opzioni terapeutiche meno "aggressive" e costose, per le quali i potenziali rischi superano i possibili benefìci.

Ma le evidenze scientifiche supportano l'utilizzo del Pdc per questo obiettivo?
Innanzitutto, la ricerca ha rivolto scarsa attenzione nel distinguere se gli effetti del Pdc sono ottenuti sui pazienti, oppure sui medici. A esempio, una revisione Cochrane che ha valutato l'efficacia degli strumenti di supporto decisionale per i pazienti - patient decision aids (Pda) - su screening e terapie riporta che «nel gruppo che utilizzava i Pda, rispetto all'assistenza tradizionale, la chirurgia maggiore in elezione è stata l'opzione scelta meno frequentemente dai pazienti». Questa conclusione si basa sull'analisi di 14 studi pubblicati tra il 1995 e il 2009, molto eterogenei rispetto al contesto decisionale, al setting assistenziale e alle caratteristiche degli interventi. Inoltre, solo 5 studi dimostravano una riduzione della chirurgia maggiore e quasi tutti non distinguevano gli effetti del Pda ottenuti sul paziente da quelli sul medico. Nonostante i limiti, questa revisione sistematica continua a essere citata per supportare il potenziale ruolo del Pdc nel ridurre l'overtreatment.

Un secondo punto debole delle evidenze che sostengono l'importanza del Pdc nel ridurre l'overtreatment e nel contenere la spesa sanitaria è la scarsa considerazione della complessità del processo con cui i pazienti costruiscono ed esprimono le loro preferenze. Indubbiamente, uno degli obiettivi principali del Pdc è garantire che i valori del paziente su benefìci e rischi delle varie opzioni terapeutiche siano dedotti ragionando, vengano compresi in maniera esplicita e quindi utilizzati per le scelte terapeutiche. In realtà, la costruzione delle preferenze è una complessa interazione tra processi mentali intuitivi e deliberativi, e poco si conosce della stabilità di valori e preferenze del paziente confrontando le sue diverse esperienze terapeutiche nel tempo. In particolare, mancano studi che dimostrano che le preferenze inducano il paziente a scegliere trattamenti meno "aggressivi" rispetto alle opzioni proposte dai medici. Viceversa, alcuni studi suggeriscono che i pazienti hanno aspettative molto elevate nei confronti della medicina e che una loro maggiore influenza nel processo decisionale sposta le scelte proprio su interventi sanitari più "aggressivi" e più costosi.

Un terzo limite è costituito dalla visione semplicistica della consultazione clinica: infatti, generalizzare su condizioni sensibili alle preferenze del paziente (le cosiddette preference-sensitive conditions) non permette di tenere conto dell'estrema variabilità del contesto clinico-assistenziale. A esempio, la chirurgia del carcinoma della mammella è stata frequentemente etichettata come condizione sensibile alle preferenze del paziente. In realtà, sino al 20% delle donne presenta una controindicazione clinica alla chirurgia conservativa, una delle ragioni più frequenti che portano le pazienti a scegliere la mastectomia totale. Altra rilevante complessità delle consultazioni cliniche è la variabilità delle strategie diagnostiche, una delle principali determinanti che condiziona l'accettazione del trattamento: a esempio, il differente uso dei test di imaging come la risonanza magnetica o la Pet per valutare l'estensione del carcinoma della mammella può influenzare le raccomandazioni del medico verso un trattamento più o meno aggressivo.<IP>
Indubbiamente, oggi le evidenze dimostrano che il Pdc migliora le conoscenze dei pazienti su trattamenti e percorsi assistenziali e aumenta la loro soddisfazione nelle consultazioni cliniche, seppur nei limiti di visite sempre più brevi che ne riducono le opportunità, in particolare le possibilità di cogliere valori e preferenze del paziente. Tuttavia, annoverare il Pdc tra le strategie per arginare il potenziale overtreatment e contenere i costi, oltre a non essere evidence-based, ha il rischio di distogliere l'attenzione dal ruolo fondamentale del Pdc nella consultazione clinica o, addirittura, di ostacolarne l'adozione, a causa di aspettative troppo elevate.