Commenti

Patto per la salute, l'errore del federalismo e il caos dei costi standard

di Vittorio Mapelli, professore associato di Economia sanitaria, Università degli Studi di Milano

Il Patto per la salute 2014-16 è un concentrato di impegni e obblighi. Con tutti i temi sul tappeto dal finanziamento ai Lea, dai dispositivi medici all'assistenza territoriale. Tra tanti colpiscono tre aspetti. Il primo è il finanziamento Ssn, che dopo tre anni riprende a crescere. Il secondo è la riproposta del metodo di riparto del budget sanitario, fondato sui costi standard. Il terzo il ritrovato desiderio di uniformità e omogeneità nei diritti di salute dei cittadini.

Dopo tre anni il finanziamento del Ssn - o meglio, le disponibilità finanziarie, che potrebbero anche variare, secondo gli obiettivi di finanza pubblica, precisa l'emendamento del Mef - aumenta da 109,9 nel 2014 a 115,4 miliardi nel 2016. Per i prossimi tre anni vengono aggiunti quindi 8,4 miliardi. Il precedente Patto 2010-12, nel pieno della crisi, aveva dato solo 4,4 miliardi, per poi tagliarne uno nel 2013. A chi andranno queste risorse aggiuntive? Ai pazienti per la loro cura - che hanno sempre più bisogno di nuovi farmaci, tempi di attesa più brevi, tecnologie innovative e ticket meno onerosi - o ai medici e ai dipendenti Ssn, che hanno il contratto o la convenzione bloccati da 4-5 anni?

La sanità è comunque un'isola felice nel mare agitato del Patto di stabilità. Finora non ha subìto sostanziali decurtazioni, come ha riconosciuto la stessa Corte dei conti nella propria relazione. Non solo non contribuisce al Patto di stabilità, come Enti locali e Regioni, ma crea nuovi deficit: nell'ultimo quinquennio 10,7 miliardi. Fortunatamente dimezzati dai 23,4 del 2004-09. Merito soprattutto delle Regioni in piano di rientro, a dimostrazione che inefficienze e sprechi si possono tagliare.

La sanità è anche l'unico settore della Pa sottratto alla verifica della spending review. Le Regioni hanno fatto valere il principio dell'auto-revisione di spesa e del mantenimento dei risparmi «nelle disponibilità delle singole Regioni per finalità sanitarie». Bene, che si certifichi quali sono i risparmi realmente conseguiti, anno per anno, e che dal 2014 non si crei più un centesimo di deficit.

Sotto il pretesto del diritto costituzionale alla salute si è fatto passare il principio della inviolabilità della spesa sanitaria. Nella sanità (privata) americana diversi autori hanno stimato che si nascondono sprechi per il 25-30% della spesa (800 miliardi di dollari). La sanità italiana è più parsimoniosa, ma è tempo di aggredire gli sprechi, partendo dal mitico costo della siringa che dev'essere uguale in tutta Italia, il più clamoroso fraintendimento (da parte dei politici) del principio dei costi standard in sanità, introdotto dalla legge 42/09 sul federalismo fiscale. Per uniformare il costo della siringa basta però la centrale degli acquisti, non serve il federalismo fiscale. Il Dlgs 68/11 ha identificato il costo standard con la spesa sanitaria (standard) pro-capite. Sono possibili diverse accezioni di costo standard. In economia aziendale il costo standard normalmente si riferisce al costo di produzione di un prodotto finito (un pezzo) in condizioni di efficienza ottimale o normale, escluse le situazioni anomale.

La siringa non è un prodotto, ma la componente di un prodotto sanitario (un ricovero, un intervento ambulatoriale). Calcolare il fabbisogno regionale per questa via analitica (costo standard dei ricoveri x quantità standard dei ricoveri), sarebbe arduo, ma fattibile e politicamente corretto, perché permetterebbe, a posteriori, di verificare se la Regione ha registrato costi e/o quantità di ricoveri superiori o inferiori allo standard. Ma sembra che i governatori non lo amino.

Certo è che il significato attribuito al costo standard dal Dlgs 68/11 come «spesa pro-capite standard» e riproposto dal Patto, conduce in un vicolo cieco, come si è argomentato su questo giornale nel 2010. È anche un metodo illogico, perché dopo avere calcolato e assegnato i finanziamenti (2011) secondo pesi rappresentativi dei bisogni sanitari e, quindi, della struttura demografica giovane o anziana (per cui alla Campania spetta una quota capitaria di 1.650 euro e alla Liguria di 1.916), definisce "virtuose", a consuntivo, le Regioni in pareggio di bilancio nel 2011 e calcola il costo standard per il riparto 2013 sulla spesa media delle 3 Regioni più virtuose, a prescindere dalla loro quota capitaria alta o bassa - e quindi dai bisogni sanitari. In nessuno dei circa 20 Paesi che adottano la quota capitaria in sanità è applicato un metodo così contorto.

Urgono una riflessione e un cambio di rotta, orientandosi su un metodo basato sulla prevalenza delle patologie croniche e sul costo standard per malattia (come suggerito da chi scrive), che è la nuova frontiera verso cui si sono incamminati numerosi Paesi (Germania, Svizzera, Israele, Sud Africa), dopo l'esempio del Medicare Usa (2004) e dei Paesi Bassi (2006).

Il Patto risente del nuovo clima, che sta cambiando nel Paese e nel Parlamento (modifica del Titolo V della Costituzione), ed è pervaso da numerosi richiami all'uniformità e omogeneità dell'assistenza sul territorio nazionale. Quindici anni di confusa sperimentazione del federalismo fiscale e di scelte compromissorie sulle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni hanno accentuato le diversità tra le Regioni nei Lea erogati, nelle politiche dei ticket, dei farmaci, conflittualità esasperate, deresponsabilizzazioni. Nel momento storico in cui si profilava il federalismo sanitario, le Regioni sono state richiamate alle loro responsabilità con i piani di rientro, i blocchi di spesa, i commissariamenti e gli affiancamenti dello Stato. Qualcuno l'ha definito "federalismo coloniale", perché si era smarrito che il federalismo, oltre che autonomo e solidale, dev'essere anche responsabile. Quando le differenze, prima tollerate, diventano divaricazioni, l'identità nazionale va in crisi. Imparare dagli errori e correggere la rotta è l'essenza dell'agire umano e sociale.