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Responsabilità e risarcimento: tribunali divisi sulla colpa extracontrattuale

di Giuseppe Buffone (giudice Tribunale di Milano)

La tecnica legislativa degli ultimi anni, si sa, non brilla per chiarezza del messaggio normativo inviato agli interpreti. Sono conseguentemente tanti gli arresti giurisprudenziali - soprattutto di legittimità - in cui la Corte giudicante, pacificamente, ammette «sviste», «refusi», «errori» e altre défaillances dell'organo legiferante. Questo continuo "inciampare" del legislatore ha messo in crisi un canone ermeneutico molto importante: quello del cosiddetto legislatore consapevole, che presuppone un Parlamento attento al diritto giurisprudenziale e composto, almeno in parte, da tecnici (Cassazione civile, sezione III, 24 agosto 2007 n. 17958). Ed ecco che il riferimento all'articolo 2043 del Cc, in seno alla legge cosiddetta Balduzzi, è in bilico tra il «pasticcio» di un Parlamento distratto e la consapevolezza di un Legislatore attento, come se si trattasse di un pendolo di Focault che oscilla in diverse direzioni, disorientando lo sguardo dell'interprete. Forse, giunti a questo punto delle cose, non resta che aspettare che il pendolo si fermi.

La questione. Sino al 1999, la giurisprudenza riteneva che il danno iatrogeno arrecato dal medico ospedaliero al paziente dovesse essere inquadrato nell'ambito della responsabilità extracontrattuale e, quindi, ristorato secondo le regole dell'articolo 2043 del Cc (vuoi in punto di prova, vuoi soprattutto in punto di prescrizione quinquennale). L'ermeneutica dei giudici si fondava sull'assenza, nel caso di specie, di un rapporto contrattuale diretto e univoco tra paziente e medico, il quale si limitava a operare nell'ambito della struttura sanitaria ospitante, senza alcun legame obbligatorio bilaterale con il malato. Con la sentenza 589/99, la Suprema corte ha, come noto, mutato indirizzo applicando, in modo inedito e per la prima volta, al paradigma della responsabilità medica, lo schema del cosiddetto contatto sociale qualificato, profilando l'applicazione delle regole contrattuali e, conseguentemente, la responsabilità ex articolo 1218 del Cc, in ragione del «contatto» che - secondo questa nuova lettura - comunque si crea tra paziente e medico, in ragione del rapporto terapeutico in ospedale. La nuova interpretazione è rimasta vitale nel tempo ed è stata assunta, in itinere, a diritto vivente dalle Sezioni unite, senza alcuna significativa opposizione. Almeno fino al 2012: in quest'anno, in un clima di rinnovata attenzione verso la cosiddetta medicina difensiva, il Legislatore ha introdotto una nuova norma intesa a incidere proprio sulla responsabilità medica. L'affastellata serie di emendamenti intercorsi tra decretazione d'urgenza e legge di conversione e la mancanza di coerenza metodologia nella stesura dei testi normativi ha, però, generato una accesa diatriba in merito alla effettiva portata (e l'effettivo scopo) di questa nuova previsione inedita.

L'articolo 3, comma 1, del Dl 183/2012, convertito dalla legge 189/2012 (cosiddetta legge Balduzzi) prevede: «l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile». Che senso ha il riferimento all'articolo 2043 del Cc nel nuovo articolo in esame? La previsione normativa di nuovo conio ha innescato un ampio dibattito in giurisprudenza: da un lato, un primo orientamento di merito ha reputato che la nuova previsione abbia ricondotto la responsabilità del medico ospedaliero al paradigma della responsabilità aquiliana; dall'altro, un contrapposto indirizzo interpretativo ha giudicato che la novella non abbia modificato lo statuto della responsabilità sanitaria, da qualificare in termini contrattuali (seppur facendo riferimento allo schema del contatto sociale). In questa temperie si inserisce, il contrasto di opinioni accesosi nel tribunale di Milano, la cui risonanza ha riacceso il dibattito anche sui media e i cui contenuti hanno evidenziato la complessa problematica, in tutto il suo spessore. E di tale complessa problematica, tutt'altro che univoca, quasi in maniera didascalica, si trova riscontro nella recente pronuncia della Corte di cassazione 7909/2014 dove la Corte di cassazione, chiamata a dare una qualificazione del termine «contratto» in riferimento a ipotesi di responsabilità sanitaria in relazione all'applicazione dell'articolo 8, paragrafo 5, della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 (ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge 30 novembre 1955 n. 1335), ha avuto modo di sottolineare, proprio in caso di qualificazione di domanda risarcitoria da errato trattamento medico - ancorché nell'ambito di interpretazione ancorata al diritto internazionale - che essa non può essere ritenuta contrattuale. Infatti, sottolinea la Corte, tale configurazione "contrattuale" opera «allorché la richiesta di indennità trovi la sua ragione giustificativa nell'applicazione di un contratto, da intendere come accordo bilaterale (o plurilaterale) su singole clausole, che vanno adempiute dalle parti contraenti», escludendo che possa assumere tale natura il contratto da "contatto sociale" frutto esclusivo della elaborazione giurisprudenziale italiana, a fronte di una riconduzione, per tutti gli altri stati contraenti, della responsabilità del medico ospedaliero nell'ambito extracontrattuale o pe tort(Cassazione civile, sezione III, sentenza 4 aprile 2014 n. 7909, Pres. Amatucci, Rel. Vivaldi). Il dibattito è stato, infine, ulteriormente arricchito dal tribunale di Milano che - proprio citando anche Cassazione 7909/2014 - con la sentenza 11 gennaio 2015 (tribunale Milano, sezione I civile, sentenza 2 dicembre 2014 n. 1430, Pres e rel. R. Bichi), ha ribadito che la responsabilità del medico ospedaliero non è contrattuale.