Dal governo

Quale exit strategy per Piani di rientro inutili e (anzi) dannosi

di Ettore Jorio (Università della Calabria)

S
24 Esclusivo per Sanità24

Una mobilità passiva che impoverisce le Regioni deboli (Calabria in primis, con il 20,1% in progressivo aumento) e arricchisce quelle resesi forti di una sanità funzionante. Alla Lombardia, che ha investito (quasi cinicamente) ad hoc, il primato di quella attiva, con oltre mezzo miliardo di euro di nuove entrate. Una rete dell’emergenza che impaurisce sempre di più i cittadini residenti soprattutto del Molise, Abruzzo e Calabria, ove le ambulanze vanno “a piedi”, con conseguenti pericoli di vita. Assistenza domiciliare integrata e territoriale neanche a parlarne, con una prevenzione che non c’è. Senza contare delle strutture per disabili, residenziali e semiresidenziali, e degli hospice nettamente insufficienti ai rispettivi fabbisogni. Sempre inadeguata in Calabria la salute mentale. Le liste d’attesa rendicontano oramai tempi biblici, tanto da mettere a rischio concreto la vita di chi ha bisogno di diagnosi e terapie tempestive. Nell’ex Regno di Napoli si registrano i record dei tagli cesari, solo per arrotondare i Drg necessari a fare quadrare i conti.
Queste sono, solo una parte, delle criticità rilevate dalla Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, nel Rapporto 2016 sul coordinamento della finanza pubblica reso noto a fine marzo.
Un giudizio severo ma obiettivo, ma sotto certi aspetti intempestivo. Ciò in quanto i pesanti rilievi hanno riguardato, soprattutto, le Regioni con piani di rientro, delle quali cinque commissariate da ben sette anni (Lazio, Campania, Calabria, Abruzzo e Molise).
Una conclusione, cui è pervenuto il Giudice contabile, che ha definitivamente sancito non solo l’inutilità dello strumento individuato nel 2004 (legge finanziaria per l’anno 2015) ma addirittura la sua dannosità. L’imposizione del piano di rientro, in quanto tale, non ha prodotto nulla di positivo. Tutt’altro, ha infatti impedito: a) la presa di coscienza delle debolezze storiche della classe politica relativa, che ha determinato colpevolmente condizioni di disagio gestionali inenarrabili nella tutela della salute, di quel ceto dirigente successivo alla stagione che si era caratterizzata per le ricorrenti sanatorie di fine anno, che assegnavano alle Regioni ciò che loro erano solite dissipare; b) la necessaria crescita del personale politico, tanto da renderlo capace di prendere le redini della gestione della res pubblica secondo i migliori criteri della buona amministrazione e della ragionevolezza della spesa.
Un errore di valutazione che - protrattosi per ben oltre un lustro nella colpevole trascuratezza dei fallimenti in atto, anche da parte dei preposti al controllo (effettuati dai tavoli ministeriali e dagli inutili e costosissimi advisor) - ha fatto sì che si aggiungessero ai buchi di bilancio di ieri quelli di oggi e si consolidasse l’inappropriatezza delle prestazioni sanitarie, ma soprattutto si certificasse l’insostenibilità assoluta dei servizi sanitari regionali, nelle sue attuali vesti legislative.
Una presa d’atto che la politica ha ritardato, assumendosi colpe imperdonabili. Ciò in quanto ha supposto di curare il male (di bilancio e di esercizio) con la peggiore delle terapie: l’individuazione di commissari ad acta, per lo più inadeguati, preposti al ruolo solo perché funzionali a rappresentare in situ gli interessi politici dei loro rappresentati. In una prima fase, addirittura gli stessi che avevano determinato i guasti di allora, atteso che vennero preposti nel ruolo gli stessi Presidenti delle medesime Regioni.
Oggi la ministra Lorenzin promette di rivedere le regole. Ma quali? C’è tanta curiosità in giro nell’averne conoscenza, con la speranza che siano ben lungi dal realizzare i disastri consuntivati sino ad oggi. Riusciranno i nostri eroi?


© RIPRODUZIONE RISERVATA