Dal governo

Allarme di Italia Longeva: gli «esodati» della Long term care sono 3 milioni, il Ssn copre il 25% della domanda di cure. Il ministero mette sul piatto il Piano nazionale cronicità e il Patto della Sanità digitale e rilancia i fondi integrativi

di Barbara Gobbi

S
24 Esclusivo per Sanità24

La stima è di quelle da far tremare i polsi: se un milione di pazienti bisognosi di cure a lungo termine trovano oggi risposte nel Servizio sanitario nazionale - tra Adi, hospice e Rsa - quelli che restano a spasso si stima siano decisamente la maggioranza. «Altri 3 milioni di pazienti non sono gestiti dal Sistema sanitario nazionale. Alcuni di loro possono permettersi un’assistenza privata - una badante o un infermiere - ma è facile immaginare che molte di queste persone gravino pesantemente sui familiari o su altri caregiver di fortuna e che quindi rappresentino veri e propri “esodati della Sanità”», lancia l’allarme Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva, che a Roma al ministero della Salute ha aperto l’evento “Long Term Care One”, una due giorni che oggi e domani sarà l’occasione per fare il punto anche sui documenti programmatici del ministero. Dal Piano nazionale della prevenzione al Piano nazionale cronicità fino al Patto per la Sanità digitale , appena approvato dalla Conferenza Stato-Regioni.

A fare il punto sul Piano nazionale cronicità , la cui prima bozza è stata anticipata da Sanità24 , è il direttore generale della Programmazione del ministero Renato Botti. «Dopo un’ampia concertazione che ha coinvolto sia i governatori sia le associazioni - spiega Botti ai nostri microfoni - il testo è ormai pronto per la firma della ministra e per l’invio alla Conferenza Stato-Regioni. L’idea è di ottenere ora un’approvazione rapida che, auspichiamo, ne consentirà l’applicazione già a partire dal 2017. Questo strumento - ha proseguito Botti - rappresenta una vera e propria rivoluzione, anzitutto perché si prefigge di realizzare in concreto quella integrazione tra ospedale e territorio di cui si parla da tempo». Al centro del sistema, il medico di medicina generale e anche per questo «è importante che sia correttamente attuata la riforma delle cure primarie». L’altra priorità è definire linee di sviluppo comuni «da parte di Regioni che oggi hanno Pdta differenti. L’obiettivo del Piano è consentire al maggior numero di pazienti di continuare a essere assistiti a domicilio, e per far questo abbiamo bisogno di valorizzare anche gli infermieri. La priorità sarà poi diffondere le buone pratiche già realizzate», è la conclusione di Botti.

Intanto, il convegno guarda oltre lo stesso concetto di cronicità. L’espressione “Long term care” è stata pensata proprio per superare «quella patina di rassegnazione caratteristica dell’attuale modalità di presa in carico – e a volte di presa in carico mancata – dei pazienti che hanno bisogno di cure continuative a lungo termine - e individuare soluzioni pragmatiche in funzione di servizi da offrire concretamente ai cittadini. E a più cittadini possibile», ha tenuto a precisare Bernabei. Inutile dire che che il tema varca decisamente i confini nazionali. Come ha ricordato John Beard, direttore del dipartimento “ Ageing and Life Course” dell’Organizzazione mondiale della Sanità, la stessa Oms ha adottato di recente la “Global Strategy and Action Plan on Ageing and Health”, che mira ad «assicurare che tutti i Paesi abbiano un sistema di long-term care: questo è infatti - ha precisato Beard - uno degli elementi chiave della Strategia varata dall’Organizzazione. Venire incontro ai bisogni degli anziani con significative limitazioni fisiche, o in generale con perdite di funzionalità fisica può consentire loro di continuare a condurre una vita piena di significato e di dignità, al di là dei limiti fisici. E anche supportare meglio le persone che garantiscono l’assistenza agli anziani, più frequentemente caregiver donne, può consentire di ripartire più equamente l'impatto complessivo delle limitazioni fisiche della terza età, e così permettere anche alle persone che prestano assistenza di avere più tempo da dedicare ad altre attività e aspirazioni».

Non c’è tempo da perdere, avverte Ketty Vaccaro del Censis: «Nel 2013 avremo 5,5 milioni di 80enni e 1,3 milioni di 90enni e a breve il gap oggi esistente tra le Regioni italiane, con la Liguria che è la più anziana in assoluto con il suo 28,2% di over 65 - in Giappone sono il 26,6% - e la Campania che è la più giovane, sarà colmato: nel 2031 il 27% di anziani lo avremo nel Mezzogiorno, che presenta problematiche specifiche in tema di long term care. I margini di manovra non mancano: il 64,5% degli over 75 non si sente “anziano”. Però percepisce l’invecchiamento nel momento in cui avverte la perdita della autosufficienza ed è qui che bisogna intervenire».

I dati certo non mancano, però bisogna capire come utilizzarli e come sapere trarre profitto. «Abbiamo milioni di “records” ma vanno integrati - afferma Massimo Casciello, Dg Digitalizzazione del Sistema informativo sanitario e statistico della Salute - e il Patto per la Sanità digitale segna una grande svolta in questo senso. Abbiamo necessità di dati ma non di quelli canonici, di cui disponiamo, quanto di conoscere il pensiero e il vissuto del cittadino, la fisiognomica sociale. Faccio l’esempio dell’ultra-Cup realizzato in Veneto, dove si possono prenotare prestazioni direttamente dallo studio del Mmg. Ebbene, lì il 50% dei cittadini ha detto di no al progetto perché prima aveva bisogno di sapere se il figlio o il caregiver aveva la possibilità di accompagnarlo a fare quel determinato esame. Noi abbiamo moltissimi dati e abbiamo fatto tante cose eccellenti ma in ordine sparso, ora dobbiamo utilizzare al meglio le informazioni e riconvertirle sulle nuove esigenze dell’assistenza, che sono diverse tra Nord, Centro e Sud. I soldi ci sono: se non ricoveri mille persone per il 50% dei ricoveri che generalmente avvengono 3 volte l’anno, risparmi intorno ai 12 milioni di euro».

Certo è che l’Italia, che pure dal punto di vista delle informazioni e degli atti programmatori è tra i Paesi all’avanguardia, sconta gap profondi sotto il profilo dell’equità e della governance. A partire da un inadeguato investimento in prevenzione. Ricorda le tante fragilità che rischiano di minare la sostenibilità del sistema il Dg Prevenzione della Salute Ranieri Guerra: «I ben 18 miliardi annui di spesa privata a carico dei contribuenti - nemmeno intercettati dalle assicurazioni integrative - la dicono lunga sulla necessità di un cambio di passo. Che deve riguardare anche un nuovo modo di intendere la stessa prevenzione: penso alla profilazione genomica che può avvalersi dei big data per utilizzare modelli di screening per micro classi di età disaggregate, ma penso anche a una prevenzione che inizi fin dal periodo fetale e dell’infanzia e che tenga conto dei determinanti di inquinamento ambientale (dalla Terra dei fuochi alla Pianura padana) come concause - più importanti e incisive delle abitudini alimentari - di fenomeni come l’obesità infantile. Finalmente l’attuale Piano nazionale della prevenzione ci dà una mano in termini di risorse: si avvarrà del 5% di investimento, indirizzandolo su genomica e ricerca e non più, come è avvenuto fino a oggi, destinando per il 70% fondi già scarsi alla prevenzione alimentare e veterinaria». Ma a mancare è anche una governance di sistema capace di superare iniquità e paradossi tutti italiani. «In un sistema in cui le fonti di finanziamento sono eterogenee - enti locali, Ssn, Inps - nessuno è responsabile delle storture - afferma Francesco Longo del Cergas Bocconi - Eppure le risorse nel complesso disponibili non sono poche: 32,4 miliardi che potrebbero essere ben destinati ai 2,5 milioni di non autosufficienti, di cui il 55,7% sono “over 80”. Di ciascuno di questi potenziali pazienti sappiamo tutto, perciò potremmo intervenire adeguatamente. Ma oggi l’Italia è in un paradosso: accede al sostegno chi ha più strumenti ed è in grado di dedicarsi allo “shopping around”, tra voucher, servizi e trattamenti previdenziali. Mentre 1,45 milioni di persone, le più fragili, della torta di 32 miliardi non ricevono nulla. Per loro la prima e l’ultima spiaggia sono il pronto soccorso e i ricoveri ripetuti, che costano al Ssn e incidono sulla salute dei diretti interessati. All’ennesimo ricovero tornano a casa più malnutriti, più depressi e magari con qualche infezione ospedaliera. In questo contesto, inevitabilmente la non autosufficienza invade tutti i settori, diventa “overwhelming” spiazzando le altre fragilità. Quale ricetta adottare? A mio avviso l’Italia, come altri Paesi hanno scelto di fare, deve darsi un “perimetro”. I cui cardini siano: un punto unico che non disperda in tanti rivoli le prestazioni ma realizzi un counselling efficace per le famiglie; la trasformazione dell’assegno di accompagnamento (che oggi va ai ricchi e non ai più poveri) in servizi erogati attraverso il voucher previa introduzione del test dei mezzi; l’assegnazione a un unico servizio dei 32 miliardi oggi destinati ai non autosufficienti.

La Sanità integrativa può dare una mano? Sicuramente sì e i “partner” - da Fasi e Federmanager rappresentati all’incontro dal presidente Stefano Cuzzilla a Unisalute, rappresentata dalla Dg Fiammetta Fabris - si candidano a collaborare con le istituzioni per una revisione dell’approccio alla long term care in vista di un’unificazione delle risorse e di una maggiore integrazione degli interventi. In questa direzione che sta andando il ministero della Salute. «Oggi - spiega Maria Donata Bellentani della Dg Programmazione del ministero - sono 300 i fondi sanitari iscritti all’anagrafe del ministero: i “puri” sono solo 7 svolgono attività aggiuntiva rispetto alle prestazioni Lea mentre ben 293 sono quelli ex Dm del 2008 e del 2009 e riguardano quindi gli enti, le casse e le società di mutuo soccorso aventi esclusivamente fini assistenziali. Questi sono 293 nel 2014, impegnano 2 miliardi di euro di cui il 20%, pari a 682 milioni, dedicati a prestazioni sociosanitarie per non autosufficienti, per la riabilitazione a temporaneamente inabili al lavoro o prestazioni odontoiatriche. Gli iscritti sono 7,4 milioni. Speriamo di migliorare il sistema di conoscenza e di monitoraggio di ciò che veramente fanno questi fondi integrativi, al di là del macro livello di prestazione. Ciò porterà a un nomenclatore delle prestazioni effettivamente erogate alla popolazione in forma integrativa rispetto alle cure Ssn. Che, voglio ricordarlo, è un Servizio sanitario nazionale straordinario pur se va riorientato dall’acuzie alla long term care per la persona fragile, cronica, multicronica e non autosufficiente. Per fare questo ci stiamo dotando del Piano nazionale cronicità, che introduce una visione di sistema». E la chimera del Fondo unico per la non autosufficienza? «Questo è un tema di governo che presuppone un lavoro collettivo: Mef, Inps e ministero del Lavoro - conclude Bellentani - dovrebbero partecipare alla promozione di un Fondo di cui più volte, nel corso degli anni e anche con proposte di legge, il ministero della Salute si è fatto promotore. La nostra disponibilità c’è tutta».


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