Dal governo

Il tragico filo conduttore di tutto l’Appennino

di Giuseppe Lupo (Scrittore, saggista e docente all'Università Cattolica di Milano)

Ciò che è accaduto nella notte sulla dorsale che collega il Lazio all'Umbria (al di là delle normali considerazioni sull'imprevedibilità di certi fenomeni, sulla più o meno efficace macchina dei soccorsi, sullo sgomento che inevitabilmente suscita in chi, come noi, osserva le scene di disperazione e di morte) è l'ennesima riprova che l'Appennino è terra tanto misteriosa quanto insicura. Anzi le sue incertezze geologiche, i suoi sussulti tellurici sono il segno di una capricciosa volubilità, di un carattere tragico e ballerino che probabilmente deriva dal non avere una identità riconosciuta, dal possedere un volto ancora magmatico, indefinito, non del tutto assodato dal trascorrere dei secoli.

Conosco perfettamente ciò che avviene durante e dopo un terremoto: macerie, polvere, sangue, morti, speranze di trovare corpi vivi sotto le pietre, coraggio e paura, polemiche e sconforto. Ne sono stato vittima qualche anno fa, quando ho vissuto in prima persona il sisma dell'Irpinia, nel novembre del 1980, che poi ho raccontato in un mio fortunato romanzo. Queste sensazioni perciò mi vengono dettate da ragioni non tecniche, piuttosto da quel senso di insicurezza che rende fratelli tutti gli uomini di fronte alle catastrofi della natura e sotto certi aspetti apparenta in un unico destino di accettazione e di fatalismo le comunità cresciute ai piedi o sopra le cime di questo antico filare di montagne, le assimila fra loro anche se dislocate su paralleli diversi - da Reggio Emilia all'Aspromonte - le fa riconoscere un insieme di individui sottomessi a una stessa legge.
Chi nasce sull'Appennino è abituato a sentire i sussulti della terra, convive con l'idea di una sicurezza perduta, si fa una ragione di questa instabilità che da geologica diventa esistenziale; addirittura, per celia, assimila il fenomeno delle scosse ai rigurgiti notturni, alle tossi, ai malanni che ogni tanto capitano alle persone anziane. L'Appennino va interpretato anche così: e un nonno o un bisnonno dall'aspetto di un patriarca che dorme avvolto dal silenzio, ogni tanto si scuote, si volta sull'altro fianco nel letto, riprendendo il sonno. In questo essere un luogo anomalo rispetto a un'epoca come la nostra, terragno e non ancora liquido (forse liquido non lo sarà mai), in questo essere territorio dove il tempo transita più lentamente che altrove, sta la chiave di lettura attraverso cui comprendere le ragioni per cui chi ci abita ama rincorrere il mito di altre geografie, desidera fuggire verso il teorema di una modernità urbana e mercantile, vuole abbandonare case e terre in nome di un astratto dinamismo, di un bisogno di vita allegra.


Ignazio Silone negli anni di Fontamara parlava di un «mal d'Appennino», che è esattamente il sentirsi scissi tra l'azione del partire e del tornare, e il doloroso lasciarsi tutto alle spalle e avvertire poi la potenza nostalgica del nostos. L'Appennino è una terra che ogni tanto si scuote dal letargo e spinge i suoi figli verso altri mondi, è una culla da cui non ci si può non allontanare, se non altro per provare l´ebbrezza di Ulisse che deve conoscere il mondo, magari cadere anche nell'errore di sfidare gli dei, prima di assaporare la gioia della propria Itaca. Ma è anche un'arca di sogni e di desideri (da nessun'altra parte di mondo si aspetta il day after, come gli abitanti di Rieti hanno atteso l'alba dopo il buio che ha accompagnato la prima scossa), e un luogo di vigilie e di notti insonni, spese a progettare il futuro, a ipotizzare come sarà il domani.


Potrà sembrare un paradosso, ma è proprio sull'Appennino che fioriscono le utopie, non nei luoghi di pianura o lungo le coste. Ne cito quattro: da Nomadelfia di don Zeno alla comunità di Montesole di Giuseppe Dossetti, dal cristianesimo come riattualizzazione del vangelo riscritto da Francesco d'Assisi al cristianesimo come rifiuto di Celestino V. Sembra quasi che Dio parli con una lingua diversa, anzi che proprio lassù avvenga il miracolo di una religione inedita. E a Carlo Levi, che nel 1945 aveva teorizzato l'assenza di Cristo (il suo Cristo si è fermato a Eboli non è altro che un teorema sulla latitanza di Dio, inteso come ragione e come processo storico, nelle antiche aree interne della Lucania) risponde trent'anni dopo Mario Pomilio con un libro a suo modo tellurico – Il quinto evangelio (1975) – dove si presuppone una spasmodica ricerca di Cristo nei luoghi che da Bobbio discendono verso l´Aquila e Sulmona fino alle Calabrie.


Tutti gli scrittori che pongono le loro radici sopra l'Appennino frequentano l´utopia in dimensione alternativa alle malinconie o ai fallimenti della Storia: da Raffaele Crovi a Paolo Volponi, da Silone a Pomilio, da Raffaele Nigro a Carmine Abate. Mi limito solo a pochi nomi, ma l'elenco andrebbe allungato perché è come se la sonnolenza dell´Appennino, l´antico dilemma che sfocia in tragedia quando accade un terremoto, fosse il lievito di un nuovo giorno, quasi sedimentasse gli avvenimenti, amalgamasse le parole di un dizionario inedito, mescolasse i linguaggi che arrivano dall´accumulo di popoli sopraggiunti ad altri popoli, addormentasse i progetti. Poi però, come in un'epifania dopo l'attesa, i sogni covati nella cenere improvvisamente esplodono, il mondo vecchio lascia il posto a quello nuovo e il tempo improvvisamente accelera, ancor più di altre geografie. Basta un terremoto e non solo il paesaggio, ma anche l'antropologia cambia, gli antichi borghi cessano di esistere, di essi rimangono solo le memorie che però sono il lievito del futuro. Lo sguardo alla dimensione del mondo di ieri si confonde inevitabilmente nella tensione e nelle preoccupazioni di come sarà domani. Anche questo contiene lo strano dizionario del terremoto.
Superata la fase delle lacrime, quando volteremo la pagina dei lutti e dei rimpianti, sarà necessario riscrivere il passato con una lingua che per forza di cose dovrà contenere i vocaboli della modernità. Ma è l'unica soluzione che ci rimane per non sentirci naufraghi e soli dentro il mare dell'esistenza.


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