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Spese deducibili in caso di disabilità e la Corte costituzionale estende ai conviventi i permessi della legge 104

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

Con la risoluzione n. 79/E del 23 settembre l'Agenzia delle Entrate ha meglio definito la deducibilità dal reddito delle spese mediche e di assistenza specifica a carico dei disabili.
Era stato richiesto all'Agenzia se ai fini della deducibilità fosse necessaria la certificazione relativa al riconoscimento dello stato di portatore di handicap ai sensi della legge n. 104 del 1992, oppure fosse stato sufficiente la certificazione dello stato di invalidità. In via preliminare, la risoluzione sottolinea che, come chiarito, già, nelle istruzioni ai modelli di dichiarazione dei redditi 2016 e nella guida sulle agevolazioni fiscali per le persone con disabilità, aggiornata a marzo 2016, ai fini della deducibilità delle spese mediche e di assistenza specifica necessarie nei casi di grave e permanente invalidità o menomazione, di cui all'art. 10, comma 1, lett. b), del TUIR, sono considerati “ disabili ”, sia le persone che hanno ottenuto le attestazioni dalla Commissione medica istituita ai sensi dell'articolo 4 della legge n. 104 del 1992, sia coloro che sono stati ritenuti “ invalidi ” da altre Commissioni mediche pubbliche incaricate per il riconoscimento dell'invalidità civile, di lavoro, di guerra, eccetera. Riguardo ai soggetti riconosciuti portatori di handicap, ai sensi delle legge n. 104 del 1992, è opportuno precisare che la grave e permanente invalidità o menomazione, menzionata dall'articolo 10, comma 1, lett. b), non implica necessariamente la condizione di handicap grave di cui all'art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992. Si è del parere, pertanto, che la certificazione rilasciata ai sensi della legge n. 104 del 1992 sia sufficiente ad attestare il requisito soggettivo per fruire della deduzione. Tale soluzione non è, invece, adottabile per i soggetti riconosciuti invalidi civili. Infatti, già in passato, con la circ. n. 55/E del 2001, era stato precisato che, per il diritto alla deduzione , non potesse ritenersi sufficiente il solo riconoscimento dell'invalidità civile, dal momento che l'accertamento della invalidità civile concerne, in particolare, la valutazione del grado di capacità lavorativa. Mentre, l'accertamento dell'handicap attiene allo stato di gravità delle difficoltà sociali e relazionali di un soggetto che, se accertato, consente l'accesso a servizi sociali e previdenziali nonché a particolari trattamenti fiscali. Si tratta di accertamenti concettualmente distinti in quanto perseguono finalità diverse. Nel caso di riconoscimento dell'invalidità civile occorre, dunque, accertare la grave e permanente invalidità o menomazione. L'Agenzia ritiene che la gravità della invalidità, laddove non sia espressamente indicata nella certificazione, possa essere senza dubbio ravvisata nelle ipotesi in cui sia attestata un'invalidità totale nonché in tutte le ipotesi in cui sia attribuita l'indennità di accompagnamento. Indennità riconosciuta in favore di soggetti che versano in condizioni di particolare gravità. quali, ad esempio, i cittadini riconosciuti inabili totali per affezioni fisiche o psichiche e che si trovino nella impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, necessitano di una assistenza continua; gli ultrasessantacinquenni, non più valutabili sul piano dell'attività lavorativa, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni dell'età e che, come gli invalidi totali, abbiano necessità di assistenza continua non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita o di deambulare autonomamente.
A conferma dell'attenzione del grave problema dell'invalidità, sia sul versante economico, così come puntualizzato dall'agenzia delle Entrate, sia per gli aspetti assistenziali, anche la Corte Costituzionale è intervenuta estendendo anche al compagno del portatore di handicap il diritto ai permessi retribuiti dal lavoro così come già previsto per il coniuge ed i parenti più stretti.
La Corte costituzionale con la sentenza n. 231, depositata il 23 settembre 2016, ha , infatti, dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l'assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.
La norma bocciata concede, esclusivamente, il diritto a permessi retribuiti al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, o entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. La disposizione non include, invece, il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità.
I giudici spiegano che il verdetto non intende equiparare coniugi e conviventi, ma ha l'obiettivo di tutelare la salute psicofisica del soggetto con handicap in situazione di gravità assicurandogli la vicinanza della persona con la quale ha una relazione affettiva. La Corte infatti ricorda di aver più volte affermato che la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell'una e dell'altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell'articolo 3 della Costituzione. In questo caso, l'elemento unificante tra le due situazioni è dato proprio dall'esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti inviolabili dell'uomo. Ove così non fosse, aggiunge la Consulta, il diritto, costituzionalmente del portatore di handicap di ricevere assistenza nell'ambito della sua comunità di vita, verrebbe ad essere irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato normativo rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio. La norma in questione, conclude la sentenza, “ nel non includere il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito, viola quindi gli invocati parametri costituzionali, risolvendosi in un inammissibile impedimento all'effettività dell'assistenza e dell'integrazione ”.
25 SETTEBRE 2016 CLAUDIO TESTUZZA


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