Dal governo

Rapporto Oasi 2016/ Un Ssn in salute ma diseguale: 2,7 milioni di anziani non autosufficienti chiedono assistenza

di Patrizio Armeni, Lorenzo Fenech, Alessandro Furnari, Francesco Longo, Francesco Petracca, Alberto Ricci (Cergas Bocconi)

In Italia, nel 2015, la spesa sanitaria corrente ha raggiunto i 149 miliardi di euro, in crescita dello 0,9% rispetto all’anno precedente. Questo marginale aumento è sostanzialmente da ricondurre ai consumi sanitari privati, che valgono 34 miliardi e che rappresentano il 23% della spesa totale.

Nel 2010-2014 la spesa del Servizio sanitario nazionale è addirittura diminuita (-1,4%); nel panorama europeo, solo Grecia, Portogallo e Lussemburgo hanno registrato cali più marcati. Spesa sanitaria pubblica e privata appaiono entrambe legate al ciclo economico, la prima a causa della stretta fiscale, la seconda a motivo da parte del minore reddito disponibile delle famiglie: la possibilità che si compensino a vicenda è remota. A riprova di ciò, il livello di spesa sanitaria privata per abitante più elevata (circa 700 euro) si registra in Trentino Alto Adige, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, Regioni considerate tra le migliori per quanto riguarda l’offerta quali-quantitativa dei servizi Ssn. Al contrario, in Campania, Sardegna e Calabria si registrano i valori più bassi di spesa privata, sotto i 375 euro per abitante.

Questa dinamica pone interrogativi sulla possibilità di coprire adeguatamente il bisogno sanitario dei territori e delle fasce sociali più deboli: tra 2013 e 2014, la percentuale di pazienti che auto-dichiara la rinuncia alle cure per ragioni economiche è salito ancora, seppur lievemente: dal 6 al 6,2 sul totale della popolazione e dal 13,1 al 13,3 nel primo quintile per reddito (Eurostat, 2016).

L’aspettativa di vita in buona salute è mediamente di 60 anni al Nord, di 55,4 nel Mezzogiorno (Istat, 2015). Ciò in un panorama epidemiologico destinato a peggiorare: il rapporto tra ultra 65enni e minori di 14 anni ha raggiunto quota 158/100 a livello nazionale, a confronto con una media europea di 118/100, senza nessun segnale di controtendenza.

I tassi di copertura del bisogno sono particolarmente critici sul versante socio-sanitario, che deve rispondere a una domanda di 2,7 milioni di anziani non autosufficienti. La presa in carico di questi pazienti in strutture residenziali è attorno al 40% in alcune aree del Nord, mentre è quasi inesistente in alcune Regioni del Mezzogiorno, attestandosi al 20% su scala nazionale. Il restante 80% dei pazienti non autosufficienti, assistito in modo informale grazie all’autorganizzazione delle famiglie, al peggioramento delle proprie condizioni cerca di accedere a un qualsiasi servizio sanitario o socio-sanitario professionale disponibile, soprattutto se gratuito, pur di trovare una risposta formalizzata e strutturata. Questa quota di domanda socio-sanitaria non governata ha prevedibili impatti sull’appropriatezza della presa in carico e la funzionalità del sistema sanitario.

Nel 2015, per il quarto anno consecutivo, il Ssn registra un avanzo di 346 milioni, pari allo 0,3% delle risorse correnti complessivamente a disposizione del Ssn. Gli automatismi per riaggiustare eventuali disavanzi creano un sistema robusto di incentivi alla sostenibilità dei singoli Ssr, responsabilizzando le comunità regionali e i loro meccanismi di rappresentanza. A questo proposito, un dato di rilievo è l’equilibrio finanziario di quasi tutti i sistemi regionali. La figura 2 descrive i trend dei disavanzi registrati annualmente dai Ssr nelle tre macro-aree del Paese: si nota una rapida diminuzione dei deficit del Centro-Sud a partire dalla metà degli anni 2000. Anche sulla copertura dei debiti pregressi, almeno sul versante dei fornitori del Ssn, si rilevano evidenti segnali di miglioramento. A livello nazionale, tra 2012 e 2016, i tempi di pagamento massimi delle aziende sanitarie pubbliche sono stati dimezzati, passando da 307 giorni a 161 (Assobiomedica, 2016). In definitiva, il percorso di risanamento economico-finanziario è solidamente avviato e ha raggiunto risultati importanti.

Negli ultimi tre anni, in molti Servizi sanitari regionali (9 su 21) sono stati avviati estesi processi di riordino istituzionale. Tre sono state le dinamiche prevalenti: accorpare il numero delle aziende territoriali, rendendole sempre più vaste; reintegrare istituzionalmente servizi ospedalieri e servizi territoriali; rafforzare il ruolo della capogruppo regionale o delle sue agenzie di supporto. Si tratta di un trend evidente: a ottobre 2016, la popolazione media delle aziende sanitarie italiane ha già raggiunto i 501.368 abitanti, facendo aumentando del 22% rispetto al 2013 e del 70% rispetto al 2001.

Queste riforme istituzionali possono effettivamente accelerare l’innovazione a patto che le energie si focalizzino sui “fini” del cambiamento, cioè il riallineamento dell’offerta ai bisogni epidemiologici e il governo delle interdipendenze orizzontali tra setting assistenziali, tra settore sanitario, socio-sanitario e socio-assistenziale, tra spesa pubblica e spesa privata delle famiglie.

Bisogna invece evitare di disperdersi eccessivamente sui soli mezzi istituzionali discutendo solo di allocazione verticale dei poteri (Stato-Regioni-agenzie-aziende). Ciò avviene se i sistemi di pianificazione e monitoraggio delle riforme sono dotati di robusti incentivi di politico-istituzionali e manageriali per raggiungere velocemente gli obiettivi strategici prefissati. Peraltro, se si osservano reti di offerta regionali e aziende, ci si rende conto che la trasformazione delle piattaforme erogative sta già avvenendo, seppur con modalità e velocità differenti nei vari Ssr.

Al di là del costante calo dei posti letto ospedalieri e dei ricoveri a bassa complessità, in quasi tutte le regioni sia assiste alla razionalizzazione dell’offerta, che viene innescata, di norma, dalla rimodulazione dei servizi ospedalieri collegati alle reti tempo-dipendenti, con cambiamenti che riguardano la concentrazione del case mix, l’accorpamento delle strutture organizzative interne e la diminuzione dei punti fisici di accesso ai servizi ospedalieri, spesso riconvertiti in strutture intermedie.

A titolo esemplificativo: la percentuale di colecistectomie laparoscopiche in reparti con almeno 90 casi è passato dal 65% al 74% tra 2008 e 2014; quello di interventi per tumore al seno in reparti con almeno 135 casi è salito dal 51,6% al 61,4 per cento (Programma nazionale Esiti, 2015). Al netto di azioni di razionalizzazione effettuate negli ultimi due anni, sono ancora comunque molti i presidi generalisti di piccole o piccolissime dimensioni - bacino di utenza minore di 80mila abitanti - in cui è presente un punto nascita e/o vengono presi in carico pazienti che necessitano di trattamenti relativamente complessi (angioplastica percutanea, infarto miocardico acuto), che dovrebbero essere erogati nei presidi ospedalieri di primo e di secondo livello. Per queste prestazioni, ma anche per alcuni interventi di chirurgia generale, la maggior parte dei piccoli ospedali non è in linea con gli standard minimi di volume di casistica ex Dm 70.

La razionalizzazione della rete ospedaliera va completata, innanzitutto per raggiungere la clinical competence necessaria a garantire sicurezza ai pazienti; inoltre, la razionalizzazione si traduce nella liberazione di spazi e nella disponibilità di personale con competenze specialistiche fondamentali per lo sviluppo delle cure intermedie e primarie.

Le dinamiche del personale. L’età media dei dipendenti Ssn, nel 2014, era pari a 53 anni per i medici dipendenti e a 47 per le professioni sanitarie (Conto annuale, 2016). Da un lato, la sanità italiana soffre i costi correlati all’invecchiamento della propria piramide professionale (alto burn out, scarsa propensione all’innovazione e al cambiamento, clima organizzativo negativo ecc.) e all’incongruenza del suo skill mix rispetto ai bisogni emergenti.

Allo steso tempo, si tratta di una grande finestra di opportunità. Il ritrovato equilibrio finanziario e l’inevitabile, fisiologico rallentamento del blocco delle assunzioni permette di scegliere lo skill mix del futuro. È una discussione che deve collocarsi rapidamente al centro dell’agenda del Ssn, perché la sua compiuta attuazione richiede almeno 10 anni di lavoro, necessari per formare, selezionare e inserire i professionisti.


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