Dal governo

Gli enti locali e le associazioni di tutela giocano un ruolo nelle politiche sociali?

di Roberto Polillo

Lo stop and go sulla dotazione dei fondi per le politiche sociali e la non autosufficienza, tagliato il primo di 211 milioni di euro (da 300 milioni a 99) e il secondo di 50 milioni e ora reintegrati se un seguito ci sarà alle buone intenzioni del presidente Gentiloni, è un altro dei paradossi della politica del paese.
A parole, tutti sono d'accordo sulla necessità di ripolarizzare l'offerta sanitaria verso la long term care causa le profonde modificazioni demografiche ed epidemiologiche della società italiana, sempre più in affanno per patologie croniche invalidanti; nei fatti invece non si potenziano le strutture che tali servizi dovrebbero erogare e si tagliano i pochi fondi dedicati.
La questione tuttavia va oltre gli aspetti meramente finanziari e chiama in causa un deficit di responsabilità istituzionale da parte degli enti locali (che sono io titolari delle politiche sociali e della integrazione socio-assistenziale) e di strategia politica da parte delle organizzazioni di tutela degli utenti
Per quanto riguarda i primi è del tutto evidente lo scarsissimo interesse dei sindaci nei confronti delle politiche sociosanitarie. E questo anche quando, come nel caso del Lazio, il sindaco è la massima autorità sanitaria di quasi la metà della popolazione residente nella regione (2,6 milioni di romani su un totale di 5,8 milioni di abitanti) .Come è possibile dunque che il sindaco non abbia nessuna voce in capitolo? La risposta è purtroppo assai semplice: i sindaci non esercitano alcun ruolo, non solo nel Lazio ovviamente, in quanto non hanno quasi mai proceduto a consorziarsi in unione dei sindaci , atteso che la conferenza dei sindaci è uno strumento di nessuna efficacia.
La costituzione dei sindaci in unione dei sindaci darebbe loro invece quel potere negoziale che ora non hanno. Certo manca lo strumento legislativo (purtroppo necessariamente di rango statale) per obbligare tutti i sindaci a promuovere tali organismi, ma è pur vero che oggi è già possibile farlo sotto forma di scelta volontaria delle singole amministrazioni. E dunque se gli ottomila sindaci italiani decidessero di costituirsi in unione dei sindaci il loro potere contrattuale in tema di integrazione socio-sanitaria (gestione delle risorse e modelli organizzativi) diventerebbe di tale rilievo da non consentire più ai governatori regionali di procedere, come avvenuto, senza colpo ferire al taglio dei fondi di competenza dell'ente locale.
Perché questo? Forse perché anche i sindaci nell'infinito gioco delle poltrone amministrano le città pensando già alla loro carriera futura in regione o in Parlamento?
Per quanto riguarda le associazioni di tutela dei cittadini la situazione non sembra differente. Troppo spesso, infatti, la scelta fatta dai loro dirigenti non è quella di mobilitare i loro rappresentati sul terreno dello scontro, quando necessario, ma di privilegiare incontri di vertice o le sedute istituzionali. Una vetrina che dà visibilità, ma a cui non si accompagna nessun reale potere decisionale. E anche qui sorge il sospetto che i destini personali giochino un ruolo eccessivo rispetto i doveri d'ufficio.
Problemi che non devono essere considerati secondari, ma che vanno invece affrontati e risolti. E questo perché, in mancanza di una chiara visione politica di tutti gli attori istituzionali, sarà ben difficile realizzare quel cambiamento non più rimandabile nel nostro modello assistenziale.


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