Dal governo

Secondo welfare e fondi integrativi in sanità: opportunità o duplicazione di scarsa utilità?

di Roberto Polillo

Il rinato interesse per quello che viene definito secondo welfare ( termine in cui si assomma sia il welfare contrattuale che territoriale) è il segno di una profonda trasformazione avvenuta nel mondo del lavoro. La lunga crisi che ha drammaticamente ridotto la capacità produttiva del paese, indotto disoccupazione e contratto il potere di acquisto dei lavoratori ancora in servizio, ha imposto all'agenda di sindacati e imprenditori nuovi temi tra cui quello di introdurre dei benefit di natura extra economica.

A questo si aggiunge la chiara volontà politica di dare slancio al settore, attraverso le modifiche all'articolo 51 del Tuir ( legge di stabilità 2016) che ha defiscalizzato senza limiti il cosiddetto welfare contrattato ( opere/servizi per finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale, sanitaria o culto) e ampliato e ridefinito il paniere dei benefit a vantaggio sia dell'imprenditore che del lavoratore (detassazione per il primo delle somme e i servizi erogati alla generalità dei dipendenti per i servizi di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti, non imposizione fiscale per i secondi sui premi di produttività convertiti in prestazioni di welfare).

Di fatto allo stato attuale in sanità i fondi integrativi sono oltre 300, e a questi aderiscono circa 9 milioni di persone, delle quali 7 milioni sono lavoratori dipendenti. E non finisce qui perché, dopo l'accordo tra il Ministro Madia e le confederazioni Cgil, Cisl e Uil del novembre 2016 oltre all'incentivo economico di 85 euro medio sono proprio i benfit di secondo welfare che entreranno a fare parte integrante delle piattaforme contrattuali.

Sembrerebbe dunque che la strada sia definitivamente spianata per un progressivo rafforzamento di quello che viene chiamato il secondo pilastro, ma i rischi connessi a questa scelta ( ora fatta propria anche dai sindacati della Pa, finora ostili) rimangono tuttora in piedi.

Da una parte rimane il problema dell'equità, perché le prestazioni vanno a favore di gruppi limitati di lavoratori (per un tempo peraltro limitato cessando con il pensionamento) ma i costi della decontribuzione vengono spalmati anche sui cittadini (ivi compresi quelli a basso reddito e pensionati) che di tali servizi non usufruiscono. E allora perché non utilizzare tali risorse per rendere effettivamente esigibili i neonati Lea che senza finanziamenti aggiuntivi rischiano di restare solo sulla carta?

Dall'altro sollevano dubbi le tipologie di prestazioni finora offerte. Un conto infatti è intervenire su quelle aree assistenziali poco coperte dal servizio pubblico (cure odontoiatriche e assistenza ad anziani e non autosufficienti), un altro è duplicare prestazioni già erogate dal servizio sanitario adducendo la giustificazione dei lunghi tempi di attesa.

Non che questo non rappresenti un problema; la difficoltà è davanti agli occhi di tutti ma questa va coniugata con la montagna di esami e prestazioni inutili inappropriate e talvolta dannose che ogni giorno vengono erogate e che i fondi integrativi inevitabilmente incrementerebbero.

Rimangono dunque sul tappeto i problemi di sempre. Il nuovo quadro epidemiologico e l'invecchiamento della popolazione richiedono lo sviluppo di una medicina di iniziativa che lavori su protocolli predefiniti e tagliati a misura delle diverse patologie; e a questo si devono accompagnare robuste misure di prevenzione e promozione della salute. Un campo rimasto ancora inesplorato per i fondi integrativi e che richiede invece la regia da parte dei medici di medicina generale e dei diversi case manager. Una presa in carico che nulla ha a che vedere con checkup e visite periodiche che ancora oggi rappresentano il core dei fondi integrativi tradizionali.


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