Dal governo

Sul pubblico impiego le cinque incognite del salario accessorio

di Gianni Trovati

C'è anche il problema eterno del salario accessorio fra i nodi da risolvere in vista del via libera definitivo alla riforma del pubblico impiego, attesa per il consiglio dei ministri di venerdì. Sono cinque, in realtà, i problemi che sul tema hanno alimentato il confronto tecnico di questi giorni nel governo e con i sindacati, contribuendo ad allungare un po' l'esame del testo prima dell'ultima approvazione.
Il primo è quello della sperimentazione che permetterebbe agli enti virtuosi di arricchire la dotazione dei fondi per il salario accessorio di una percentuale stabilita con Dpcm. La sperimentazione, prevista per il triennio 2018-2020, nel testo approvato in prima lettura è limitata a Regioni e Città metropolitane, ma questo strano sottoinsieme della Pa ha prodotto un doppio effetto: da un lato tutti gli altri, a partire dai Comuni, chiedono di essere inclusi nella sperimentazione, mentre al ministero dell'Economia si teme che il bonus ai virtuosi, anche nella versione originaria, possa avere effetti difficili da prevedere sul costo del personale.

Il congelamento delle dotazioni
Anche questo decreto attuativo della delega Pa, come recita l'immancabile clausola alla fine del testo, va attuato «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». E proprio da questa esigenza di invarianza finanziaria nasce il secondo problema. In attesa dell'«armonizzazione» degli stipendi variabili nei diversi settori della Pa, prevista anche per tradurre in pratica la riforma che ha ridotto i comparti pubblici da 11 a 4 ma deve ancora dispiegare i propri effetti concreti, il provvedimento congela le dotazioni di tutte le pubbliche amministrazioni al livello registrato nel 2016. Un blocco, temono i diretti interessati, che può rivelarsi a tempo indeterminato, proprio per la difficoltà di arrivare davvero a una «armonizzazione dei trattamenti» lungo un processo che promette di durare molti anni.

La semplificazione delle regole
Tra le promesse della riforma, e qui c'è la terza incognita, c'è poi la «semplificazione» delle intricatissime regole che oggi guidano la costituzione dei fondi accessori. Sul punto i testi rimangono sul vago, ma la loro attuazione richiede di intervenire su un meccanismo delicato che finora è sfuggito a tutti i tentativi di regolamentazione trasparente e gestibile.

Il recupero delle somme non dovute
Proprio questa è la causa del quarto problema, quello della “sanatoria” per evitare i recuperi individuali a carico dei dipendenti che negli anni passati hanno ricevuto somme poi rivelatesi illegittime per le ispezioni della Ragioneria generale dello Stato e le decisioni della Corte dei conti. La macchina della sanatoria è in campo dal 2014, quando il decreto 16 di quell'anno ha introdotto un meccanismo che continua a sollevare problemi interpretativi. A riprova della confusione che continua a dominare la materia c'è il doppio intervento arrivato in contemporanea e in modo piuttosto scoordinato. Il decreto legislativo approvato in prima lettura permette di allungare i tempi di recupero delle somme illegittime attraverso i tagli ai fondi degli anni successivi quando la rata ordinaria imporrebbe un taglio superiore al 25% del fondo; la legge di conversione del Milleproroghe, quindi già in vigore, concede invece cinque anni in più agli enti che certificano di aver adottato misure aggiuntive di contenimento delle spese di personale.
In Regioni ed enti locali, infine, la revisione profonda delle griglie rigide pensate dalla riforma Brunetta per distribuire i “premi” ai dipendenti non cancella l'obbligo di destinare alla produttività (dell'ufficio, e non più a quella individuale) la «quota prevalente» dei fondi accessori: un vincolo, questo, che in alcune amministrazioni rischia di prosciugare i finanziamenti per voci accessorie di nome ma fisse di fatto come le indennità di turno o di disagio.


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