Una chance di rilancio per la cooperazione

di Nicoletta Dentico, presidente dell'Osservatorio italiano sulla salute globale


Il Forum della Cooperazione Internazionale previsto a Milano il 1 e 2 ottobre rappresenta un'opportunità inconsueta di dialogo pubblico su temi che il nostro paese ha da tempo derubricato al rango di agenda residuale della politica. Al ministro Andrea Riccardi, che ha voluto e promosso l'evento, va riconosciuto l'ostinato coraggio di questa sterzata. Da subito, vogliamo auspicare che non si tratti di un risveglio occasionale ed effimero, ma l'avvio di un percorso, di lungo respiro, capace di valorizzare le competenze. A maggior ragione perché l'Italia, segnata antropologicamente da un periodo di patologica introversione, sta attraversando il guado di una crisi che non è soltanto finanziaria, né semplicemente economica, politica o sociale. Come scrive l'antropologo Marc Augé, è "una crisi del rapporto sociale e dei fini, riguarda il nostro posto nell'universo".
Che cosa vuol dire, oggi, parlare di cooperazione internazionale? Di quale cooperazione discutiamo in un'epoca in cui molteplici crisi si intrecciano – la crisi finanziaria, la crisi energetica e climatica, la crisi alimentare, la crisi occupazionale – come l'esito a lungo annunciato di un sistema economico insostenibile che infierisce sull'esistenza dei popoli, assottigliando la risorsa più preziosa di chi è economicamente e socialmente deprivato, quella che Arjun Appadurai chiama "la capacità di aspirare"? Quale orizzonte di sviluppo si può mettere in campo quando la comunità internazionale annaspa, travolta dagli squilibri prodotti da decenni di globalizzazione della finanza e dalla progressiva marginalizzazione del multilateralismo nel governare la condizione di fortissimo vantaggio che le grandi imprese private vantano nei confronti degli stati nazionali? E a che serve la cooperazione, con la sua connotazione sempre più umanitaria e lo sconfinamento nell'agenda militare, se non si mette mano con determinazione alla gigantesca finanza ombra dell'evasione fiscale che, come denuncia Tax Justice Network in un imperdibile rapporto dello scorso luglio, proviene per un terzo dai paesi in via di sviluppo e finisce dritta nei paradisi offishore: una stima di 21-32.000 miliardi di dollari in capitali occultati ed esportati illegalmente tra il 1970 ed il 2010?
Domande provocatorie, forse retoriche. Eppure non possiamo non constatare, da operatori del settore, come la cooperazione internazionale governativa e non governativa registri il punto di maggiore crisi proprio oggi che la dimensione della globalizzazione irrompe con forza in ogni sfera del vivere quotidiano, generando una diffusa consapevolezza dell'interdipendenza fra le persone. Sarebbe già un passo importante chiamare le cose con il loro nome e riconoscere la necessità di un ripensamento delle pratiche concepite e consolidate negli ultimi anni anche con l'appoggio del mondo non governativo, prima di affrettare risposte dell'Italia troppo accomodanti.
Pratiche orientate perlopiù al frazionamento e alla verticalizzazione degli interventi – nel campo della salute, le iniziative globali sono aumentate da 70-100 nel 2005 a 140 nel 2009 – con inevitabili effetti di frammentazione e di indebolimento istituzionale nei paesi cosiddetti beneficiari. I limiti di questo indirizzo sono sotto gli occhi di tutti. Lo raccontano gli obiettivi del millennio che faticano ad avanzare. Si nota dall'incalzare delle parole d'ordine rispolverate dai vecchi scaffali della storia del welfare: copertura universale, protezione sociale. Sarà interessante sondare le reazioni del forum a queste sollecitazioni del dibattito internazionale.
Il programma del forum, invece, trasmette messaggi piuttosto eloquenti sul protagonismo dei nuovi attori della cooperazione, nell'intento di sollecitare un sistema paese a ritrovare anche se stesso attraverso una agenda della solidarietà internazionale: un ambito che oggi non appartiene più solo ai governi o alle organizzazioni della società civile. L'approccio, dichiaratamente multi-stakeholder, ricalca un modello affermato nei circuiti internazionali. Per la prima volta è proposto a questo livello in Italia, una autentica novità dopo anni impietosi di tagli e rumorosi di annunci, segnati da pagine imbarazzanti (una per tutte, la vicenda del Fondo Globale) e da iniziative gestite autocraticamente dal MEF, come gli Advanced Market Commitments per la ricerca e sviluppo di nuovi vaccini, che incidono con notevole impatto - sotto il profilo finanziario e geopolitico - sulle scelte strategiche del nostro paese in materia di cooperazione.
Il modello multistakeholder, fondato sulla prassi di partnership funzionali tra pubblico e privato, tiene conto della molteplicità di attori in campo ma non è privo di contraddizioni. Tant'è che esso è sempre più dibattuto nelle sedi internazionali e soprattutto in seno alle agenzie dell'ONU, penosamente alla ricerca di regole del gioco adatte a gestire la complessità dell'agenda per lo sviluppo negli anni del Global Compact e la fitta concatenazione di conflitti di interessi che dominano la scena. La questione ha segnato la riforma della FAO, e oggi imperversa nel dibattito sulla riforma dell'OMS. L'idea di coalizioni funzionali tra attori pubblici e privati capaci di far leva sulla complementarietà delle competenze può in effetti produrre un maggiore impatto e quindi merita molta considerazione; tuttavia, in assenza di un chiaro assetto regolatorio, non può essere promossa come il solo modello vincente, a discapito delle funzioni istituzionali. L'irruzione dei valori di mercato in ambiti tradizionalmente estranei (perché regolati da logiche di bene comune), ed il rifiuto di approcci normativi a favore di quelli volontari su quelli sono stati gli effetti di questa scelta. I nodi oggi vengono al pettine.
Della necessità di un nuovo New Deal parlava Paul Krugman nel 2007, proponendo un piano di espansione della rete di sicurezza sociale, l'assistenza sanitaria universale e una politica fiscale con aliquote più alte per i ricchi agli Stati Uniti in campagna elettorale, sulla soglia di una colossale crisi economica e finanziaria che sarebbe partita proprio da lì. Ad un New Deal globale capace di "sollevare tutte le barche" attraverso l'interconnessione di politiche pubbliche fa riferimento Supachai Panitchpakdi, Segretario Generale dell'UNCTAD, per dirottare la mondializzazione verso lo sviluppo e ribilanciare l'economia del mondo. C'è un urgente bisogno di "riparazione", scrive nel rapporto presentato lo scorso aprile, per ripristinare fiducia collettiva attraverso una nuova distribuzione del potere economico e della sfera di influenza politica nel mondo.
Insomma, un'alleanza planetaria dove nessuno viene rinchiuso nel ruolo di "colui che non ce la fa". Mai come oggi occorrono luoghi istituzionali e attori della società civile responsabili per disegnare questo orizzonte, il solo foriero di sviluppo, nel segno dei diritti e della democrazia.
Il Forum di Milano la coglierà questa sfida?