Se l'obiezione si trasforma in illegale incoscienza

di Manuela Perrone


Durissima con i medici che violano apertamente la legge 194, abusando della possibilità di obiettare, ma anche inaspettatamente morbida su iniziative controverse come i "cimiteri dei feti". La filosofa e bioeticista Chiara Lalli ha il coraggio delle proprie idee, anche quando sono scomode. Il suo ultimo libro - «La verità, vi prego, sull'aborto» - smonta gli stereotipi sull'interruzione volontaria di gravidanza e denuncia le ipocrisie che circondano il tema dell'aborto. A squarciare veli Lalli è abituata: lo aveva fatto, a colpi di penna, prima per l'obiezione di coscienza e poi per la legge 40 sulla fecondazione assistita.

La Cassazione penale, all'inizio di aprile , ha dovuto ricordare che l'obiezione di coscienza è possibile solo limitatamente alle procedure che riguardano l'interruzione di gravidanza. I ginecologi non dovrebbero già saperlo?
Come un tecnico informatico dovrebbe sapere come accendere un computer. La notizia sui limiti dell'obiezione sarebbe abbastanza chiara a chiunque leggesse la 194. Per ogni articolo di legge - per ogni parola e per ogni richiesta - c'è un margine interpretativo, ma quando l'articolo 9 stabilisce che l'obiezione esonera il personale solo «dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza, e non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento» non mi sembra che ci voglia un eroico processo di esegesi e di ermeneutica per intravedere i confini dell'esercizio legittimo dell'obiezione di coscienza. Temo che non si tratti di ignorare questa banale rivelazione, ma di far finta di non capire.

II caso arrivato all'esame dei Supremi Giudici è un caso limite in cui l'obiezione diventa omissione di soccorso. Ma come la mettiamo con le sempre più numerose strutture sanitarie che registrano percentuali di obiettori vicine al 100%? Non è "omissione di servizio" altrettanto illegittima?
Qui entriamo in un teneno più nebbioso: più le percentuali sono alte, più siamo prossimi a un vero e proprio corto circuito. Potremmo interpretare come vicine all'omissione di servizio anche le attese evitabili, le complicazioni logistiche, la riduzione dei giorni in cui il servizio viene prestato e la sparizione di interi reparti di Ivg. A questo si aggiunga la difficoltà di ottenere la contraccezione d'emergenza e di poter scegliere tra l'aborto chirurgico e la RU486, spesso imbrigliata in labirinti burocratici e insensati. Il dominio dei servizi mancati o zoppicanti non riguarda solo la garanzia dell'Ivg.

L'imperfezione è nella legge? Oppure in chi non sa o non vuole applicarla?
C'è una contraddizione nella legge. La 194 sancisce un servizio e allo stesso tempo stabilisce le condizioni per sottrarvisi. Tuttavia la legge dice che il servizio deve essere garantito e che quindi la richiesta della donna è più forte della "coscienza" dell'operatore sanitario. A questa ambiguità si aggiungono le interpretazioni disinvolte e di comodo: si pensi agli anestesisti obiettori o agli operatori che non sono direttamente coinvolti nelle procedure abortive. Se si segue questa linea, dove dovremmo fermarci? Potrebbe essere obiettore anche chi sta all'accettazione? Dove si arresta questa catena di complicità morale? E perché oggi si sceglie di fare il ginecologo e di lavorare nel servizio pubblico se non si è disposti a garantire uno dei servizi che riguardano la salute riproduttiva?

Nel suo nuovo libro lei squarcia il velo dell'ipocrisia che circonda l'interruzione di gravidanza. Qual è la "verità" che viene fuori dalle tante storie che ha raccolto?
Che ci sono molte verità e non la versione unica e universale secondo la quale ogni donna che decide di interrompere una gravidanza ne soffrirà in eterno. E secondo cui non si potrebbe nemmeno parlare di scelta, perché nessuna donna sceglierebbe di abortire. Siamo abituati a sentire solo le storie di rimpianti, sensi di colpa e vergogna Ma ci sono anche molte donne che non si sono pentite di avere abortito e non ne portano i segni per tutta la vita. Hanno scelto di non avere un figlio o di non averne un altro. Hanno scelto di non portare avanti la gravidanza solo perché era successo - per un errore, per un difetto contraccettivo, o per altre ragioni - e non rimpiangono di avere abortito.

Colpisce l'ostilità che regna negli ospedali nei confronti delle donne che interrompono la gravidanza. Come è possibile che, nel nome dell'etica e della coscienza, si calpestino i diritti? Com'è possibile che in nome della coscienza si neghi l'assistenza?
Ci sono talmente tanti esempi, presenti e passati, che potremmo fare che non so da dove cominciare. In genere si mischiano due idee già pericolose di per sé: il paternalismo ("ti obbligo per il tuo bene") e il moralismo ("ti obbligo in nome di una Verità Morale", naturalmente posseduta da chi obbliga). II risultato è che la propria coscienza viene trasfigurata e usata come un'arma offensiva e punitiva.

Stupisce che nel 2013 sul corpo delle donne si continuino a combattere battaglie pesanti. Quanto conta, nel caso dell'aborto, l'immagine stereotipata che inchioda la donna al solo ruolo di madre? Che valenza simbolica hanno iniziative come quelle dei cimiteri dei feti?
Se la donna è Madre e se le donne che decidono di rischiare la vita pur di portare avanti una gravidanza sono il Modello, chi decide di abortire si colloca male nella gerarchia agiografica degli ultraconservatori. I cimiteri dei feti sono stati usati da molti in malo modo, anche da quelli che li hanno ferocemente condannati pensando di difendere così la 194 e la libertà di scelta. Tuttavia la possibilità di farvi ricorso dovrebbe essere garantita e non è intrinsecamente illiberale. C'è una profonda differenza a seconda dell'età gestazionale e delle ragioni per cui si è interrotta la gravidanza un aborto tardivo e deciso dopo una diagnosi prenatale è, ovviamente, molto diverso da un aborto precoce. La sepoltura poi non ha il potere di incidere sull'ontologia degli embrioni e dei feti.

(Dal Sole-24 Ore Sanità n. 14/2013 )