Aborto, 35 anni di battaglie

di Flavia Landolfi e Manuela Perrone


È un percorso a ostacoli sempre più alti, in cui l'asticella dell'obiezione di coscienza è salita a livelli esponenziali. La legge sull'interruzione di gravidanza che il 22 maggio spegne le sue 35 candeline, festeggiando il risultato di aborti dimezzati dal 1982 a oggi, non è mai stata a rischio come negli ultimi anni. E non lo dicono solo i movimenti femministi ma i dati della relazione 2012 del ministero della Salute (l'ultima disponibile) sullo stato di attuazione della legge 194/1978.

Il personale che rifiuta di eseguire le interruzioni è ormai la stragrande maggioranza, e di fatto rende spesso inapplicabile la legge. «Nel 2010 - recita il dossier della Salute - si evince una stabilizzazione generale dell'obiezione di coscienza tra i ginecologi e gli anestesisti, dopo un notevole aumento negli ultimi anni. A livello nazionale, per i ginecologi si è passati dal 58,7% del 2005, al 69,2% del 2006, al 70,5% del 2007, al 71,5% del 2008, al 70,7% nel 2009 e al 69,3 nel 2010». Ma bisogna fare i conti con la statistica e la storiella del pollo: una media di 7 medici su 10 che non eseguono interruzioni di gravidanza si traduce in una copertura pari a zero in molti ospedali italiani. E infatti «percentuali superiori all'80% tra i ginecologi si osservano principalmente al Sud: 85,7% in Molise, 85,2% in Basilicata, 83,9% in Campania, 81,3% a Bolzano e 80,6% in Sicilia». Sempre che le rilevazioni siano aderenti alla realtà.

«I dati reali sono ben peggiori», non si stanca di ripetere Silvana Agatone, ginecologa al Pertini di Roma e presidente della Laiga, l'associazione di medici non obiettori che vigila sull'applicazione della 194. «Nel Lazio siamo riusciti a ricostruire che l'obiezione dei ginecologi arriva al 91,3% e non è l'80,2% come indicato sulle carte ufficiali». Secondo la Laiga nella Regione soltanto in dieci strutture su 31 è possibile interrompere la gravidanza, e il numero scende a quattro quando la richiesta è per un aborto nel secondo trimestre. «Le Università non formano nuovi ginecologi all'interruzione della gravidanza, e noi stiamo andando in pensione. Credo che entro tre o quattro anni l'aborto, specie terapeutico, non sarà più possibile in Italia», ha detto la ginecologa. Anche tra i non medici l'obiezione è cresciuta: dal 38,6% del 2005 si è passati al 44,7% del 2010. Valori più bassi rispetto ai medici ma anche più variabili, con un massimo di 86,9% in Sicilia e 79,4% in Calabria.

Dietro i numeri, poi, i comportamenti, le storie, spesso consumate sulla salute e la vita delle donne. È il caso di quella ginecologa dell'ospedale di Pordenone che si è rifiutata di prestare assistenza a una donna a rischio di emorragia nelle ore successive all'intervento. A Napoli, l'anno scorso, la morte dell'unico ginecologo non obiettore del Policlinico Federico II ha causato la sospensione del servizio: dietro le proteste dell'Udi, l'Unione donne italiane, il commissario per la Sanità in Campania ha consentito una deroga al blocco del turn-over previsto dal Piano di rientro per bandire un posto per un ginecologo non obiettore. A Bari, a marzo, tutti i ginecologi e le ostetriche del San Paolo, l'ultimo ospedale della Asl che garantiva il servizio, hanno deciso un'obiezione di massa. Per ragioni morali, hanno detto. Ma l'inadeguatezza e i disagi organizzativi non erano un segreto per nessuno.

Laiga, Aied, Associazione Luca Coscioni e le associazioni delle donne parlano di «sabotaggio» di una legge dello Stato. Si è avverato ciò che temevano i movimenti femminili e le donne all'interno dei partiti all'indomani dell'approvazione della legge in Parlamento. E non sono bastati 35 anni a far introiettare e stabilizzare la 194, allora rivoluzionaria ma oggi ben digerita negli altri Paesi europei. Anzi: per i non obiettori, ridotti a "riserve indiane", la situazione è peggiorata. Non solo non possono tirare mai il fiato ma sono costretti a una superspecializzazione spesso non cercata, non voluta, non perseguita.

In questo contesto i "prolife" alzano il tiro. Erano in 30mila alla terza marcia per la vita sfilata a Roma il 12 maggio scorso (in prima fila, tra le polemiche, il sindaco della Capitale, Gianni Alemanno). Papa Francesco ha esortato a «garantire protezione giuridica all'embrione, tutelando ogni essere umano sin dal primo istante della sua esistenza». Se è solo Forza Nuova a chiedere esplicitamente l'abrogazione della legge 194, il senatore Maurizio Sacconi (Pdl) ha però sollecitato al «Governo Letta-Alfano» una «moratoria legislativa sui temi eticamente sensibili e politiche amministrative in favore della vita, della famiglia naturale, della libertà educativa».

I detrattori parlano di «movimenti integralisti». Il punto, però, è un altro: che piaccia o no, c'è una legge solida, costituzionalmente incardinata e inattacabile, nei fatti svuotata dalla (legittima) obiezione di coscienza. Una legge di cui sono le Regioni a dover garantire l'attuazione, organizzando i servizi. Negli anni 70 chi poteva permetterselo volava a Londra per abortire. Roba da ricche, oggi come allora. Di certo nulla di abbordabile dalle donne con meno risorse e dalle ragazzine. È soprattutto a loro, per evitare i tanti pericolosi aborti clandestini, che la legge ha pensato, come dimostra il dibattito parlamentare e il sostegno di massa che ha ricevuto. A cominciare dalle contadine.

(Dal Sole-24 Ore Sanità di questa settimana)

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