Le "fatiche" di un golfino blu

di Ramona Corrado *


Dire che il mio libro "Un golfino blu racconta" è nato nel giorno della sua pubblicazione è una bugia. Il Golfino blu ha cominciato a esistere ben 27 anni fa, quando ho messo piede per la prima volta in un reparto ospedaliero come allieva infermiera. Non sapevo a cosa andavo incontro. Avevo solo una vaga idea di cosa volesse dire fare l'infermiera, immaginavo che significasse somministrare medicine, fare iniezioni, medicazioni e poco altro. Non avevo calcolato l'enorme peso morale del fattore umano.

Sono sempre stata una osservatrice di persone. Da piccola scrutavo per ore i volti degli sconosciuti di passaggio immaginandone le vicende personali. Tuttavia, a causa certo dell'inesperienza dell'età, non contemplavo mai la possibilità, in quelle storie, di una malattia.
Poi a 14 anni ho perso mia madre, che di anni ne aveva solo 38, per un fulmineo quanto crudele male e ho conosciuto la sofferenza. Sono entrata in ospedale, ho visto alcuni infermieri trattare bruscamente i pazienti e ho pensato: se io fossi infermiera non mi comporterei così. Lungi dall'ipotizzare che molti anni dopo avrei davvero indossato un camice bianco, imparando sulla mia pelle tutte le sfumature di una professione che si definisce di cura perché deve prendersi letteralmente cura delle persone, in ogni modo possibile.
Non sapevo niente di tutto ciò quando ho iniziato il tirocinio. Ma anche se ero cresciuta continuavo a osservare la gente. Questa volta erano uomini, donne, bambini intaccati nel proprio stato di salute. E io non ero più una mera osservatrice, dovevo interagire in prima persona con il loro mondo di dolore. Ora le storie personali mi erano note, perché ben documentate nelle cartelle cliniche, ma era il momento di fare qualcosa di più, cioè tutto quanto rientrava nelle mie piccole possibilità per far stare meglio quelle persone.

Intanto, senza volerlo, le loro storie mi scavavano dentro.
Con l'avvento della rete, quando sul web ci fu il boom dei blog personali, mi industriai ad aprirne uno anche io . Un diario personale l'ho tenuto per tantissimi anni, in fondo era come riprendere una vecchia e sempre rimpianta abitudine. Era l'occasione di riversarvi quello che mi capitava: gli eventi della mia vita e... proprio le storie dei pazienti che la incrociavano soffiando su un fuoco ardente di mille domande irrisolte e forti emozioni. Non c'è niente che colpisca al cuore quanto il dolore e l'ingiustizia a esso legata. Quando qualche paziente mi affettava l'anima e ne faceva polpette lo riportavo sul mio diario pubblico, ovviamente senza nomi né qualsiasi altro riferimento che potesse renderlo riconoscibile, riflettevo su quello che provavo, a volte sulla mia stessa impotenza nell'aiutarlo.

Intorno al mio ventesimo anniversario di lavoro scrissi un post che parlava degli esordi, del mio passato lavorativo, delle forze che ormai mi mancavano per la fatica di aver già dato tutto, degli entusiasmi un po' affievoliti per lo stesso motivo. Non ero più una studente, ma una veterana che in altri tempi avrebbe potuto essere già in pensione e che invece si ritrovava a cercare nuove impensate energie per proseguire il cammino in corsia per un tempo indefinito.
Quel post fu notato e finì su queste stesse pagine (si veda Il Sole-24 Ore Sanità n. 20/2007 ).

Di colpo mi resi conto di quanto la gente fosse interessata a racconti che non fossero pura cronaca di malasanità, purtroppo ampiamente diffusa dai media. Esisteva un bisogno latente di essere in qualche modo rassicurati, di avere la garanzia che in un ospedale non si trova solo personale, nel migliore dei casi, cinico, svogliato, maleducato, perfino omicida, ma sensibile e pronto alla condivisione.
Al contempo acquistai altre consapevolezze: dai miei pazienti avevo imparato tanto. Grazie a loro ho conosciuto la dignità della persona, anche quando sembrava mancare; ho imparato l'importanza del contatto diretto, perché una carezza, un sorriso o una battuta scherzosa rimangono impressi con gratitudine nella memoria di chi quel sorriso o quella carezza li ha ricevuti; ho ricevuto parole di incoraggiamento da chi stava peggio di me ma mi vedeva stanca o avvilita; ho ricevuto amore vero, insomma, quello che avrei dovuto infondere io.
Mi sono scontrata con i grandi temi etici della vita che fanno discutere nelle televisioni e alzare l'audience: il fine vita, la cura dei grandi vecchi, l'accanimento terapeutico. In Tv non sono che parole, nella realtà drammi spesso laceranti e senza un perché.

Tutta questa consapevolezza cercava uno sfogo. Ho provato a radunare i ricordi e i post legati alle persone incontrate in ospedale. Li ho cuciti insieme con un filo conduttore di riflessioni che non avevo ancora mai esternato, o che avevo condiviso con qualche collega nei lunghi turni di notte. Ci ho messo pure, di nuovo, tutta la fatica e l'usura che aggredisce quando si ha nelle mani, da anni, la responsabilità della vita umana, l'urgenza di essere immediatamente efficienti in un pronto intervento salvifico, i dubbi, la nevrosi dei turni, soprattutto notturni, la rabbia reattiva nel sentire parlare solo male della Sanità, come se non esistessero brave persone che fanno con coscienza e abnegazione il loro mestiere. Così si è formato "Un golfino blu racconta", dopo una gestazione inconscia lunga oltre un paio di decenni. Grazie ad Abelbooks , che ha creduto nel testo, è alla fine diventato libro. Cioè e-book. Un supporto moderno per ribadire concetti antichi.

La mia professione oggi sta attraversando una fase di cambiamento, per la verità iniziata già da qualche anno. È in cerca di una rivalutazione professionale attraverso la qualificazione universitaria, tuttora in continua evoluzione. Non è un momento facilissimo. Le cronache ancora sono dolenti, l'eccellenza nel settore non viene segnalata, le responsabilità aumentano mentre gli stipendi restano fermi, le assunzioni sono bloccate e i tagli nella spesa tagliano le gambe dell'assistenza. L'età pensionabile è stata spostata in avanti senza umano criterio, lasciando intravedere uno scenario di infermieri allo stremo, presto vecchi e logori tra vecchi e logori, con inevitabili ripercussioni sulla qualità dell'assistenza.
In tutto ciò, quanto racconto nel mio libro potrebbe sembrare anacronistico, ma non lo è. Anche oggi, pur con le molte difficoltà dei cambiamenti, l'infermiere pone al centro di tutto sempre e solo la persona. Alle volte può sembrare distante e impersonale, e purtroppo devo ammettere che in qualche caso è proprio così, accade per qualunque professione. Ma io ho lavorato sempre con colleghi sensibili e generosi che si sono fatti in cento pezzi per soddisfare le esigenze dei pazienti, ed è solo in tal modo che concepisco questo mestiere.

Quello che spero è che il mio libro faccia tornare la fiducia a chi lo legge e lo aiuti a comprendere che non c'è distanza incolmabile tra chi assiste e chi è assistito. Una divisa non crea un muro, ma tende una mano. Sotto quella divisa c'è una umanità che assimila il dolore, è sensibile agli eventi e dimentica se stessa, spendendosi con professionalità e cuore per migliorare la qualità di vita di chi purtroppo sul suo percorso ha incontrato la malattia.

* Infermiera professionale
Unità operativa Cardiologia
Ospedale San Martino - Belluno
Scrittrice e blogger

(Dal Sole-24 Ore Sanità n. 26/2013)

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