L'ambiguità di cura degli ospedali di comunità

di Marco Trabucchi (Dipartimento di Medicina dei sistemi, Università di Roma Tor Vergata)

Alcune Regioni hanno approvato in questi mesi programmi di riduzione di posti letto ospedalieri. In alcuni casi l'offerta è eccessiva, in altri la riduzione si giustifica come conseguenza di progetti sull'appropriatezza dei ricoveri, in altri ancora il motivo (anche se non ufficiale) è economico.

Il punto cruciale è capire se la chiusura è un evento senza contropartita o se porta come conseguenza una certa disponibilità di finanziamenti per le strutture territoriali. In alcuni casi, infatti, si è progettato un incremento di posti letto in strutture chiamate «ospedali di comunità» (o simili), sostenendo che devono svolgere una funzione importante dopo la chiusura dei letti negli ospedali.

Purtroppo su questi temi vi è una certa confusione: i letti che vengono chiusi ospitano le stesse persone (dal punto di vita della gravità/complessità clinica) che dopo il cambiamento possono essere ospitati nelle strutture territoriali? Se così fosse la partita sarebbe ampiamente positiva; contro i circa 600 e più euro al giorno degli ospedali, si passa ai 150. Ma il punto centrale è che non dovrebbe essere così. Gli ospiti degli ospedali di comunità sono cittadini che hanno bisogno di prolungare per un certo periodo (20 giorni) la permanenza in un ambiente clinicamente protetto, per completare i cicli di terapia e per la stabilizzazione delle condizioni cliniche; si tratta per lo più di pazienti fragili, affetti da più malattie, con compromissione delle funzioni cognitive e motorie.

È quindi corretto che ricevano nell'ospedale di comunità trattamenti prolungati, che con l'attuale organizzazione della medicina territoriale non possono avere a casa loro. Il calcolo del risparmio si fonda quindi sull'assunzione che questi cittadini siano indebitamente ospiti nelle corsie ospedaliere, perché bisognosi di cure post acute; per loro l'ospedale di comunità è la soluzione più adeguata.

Diverso è il problema se la chiusura di posti letto avviene in territori dove da tempo si è seguita una politica per l'appropriatezza dei ricoveri, che quindi sono rivolti solo a persone con rilevanti patologie acute.
In questi casi il trasferimento comporterebbe una pesante riduzione della qualità/quantità delle cure, con conseguenze negative per l'ammalato, che ha diritto di ricevere interventi di alto livello per le patologie acute.
In conclusione si può affermare che la chiusura di posti letto negli ospedali è un'operazione positiva se sono chiare le alternative, evitando di confondere i bisogni dei cittadini.

La problematica nel suo insieme si presta anche ad altre considerazioni. La cifra allocata per il funzionamento degli ospedali di comunità non permette l'esecuzione di indagini strumentali, ma solo quelle routinarie di laboratorio. Quindi le possibilità diagnostiche sono limitate, adeguate al bisogno di persone stabilizzate, ma non certo di chi avesse l'esigenza di impostare terapie per una condizione clinica ancora instabile.
Un altro aspetto delicato riguarda il personale di assistenza. Il sistema della medicina di famiglia può garantire una cura post acuta, ma difficilmente può sostenere le esigenze di persone fragili e instabili, che provengono da un ospedale o dal territorio (il pronto soccorso dovrebbe compiere una valutazione per indirizzare i pazienti all'ospedale per acuti o a quello di comunità).

Occorre quindi prevedere un medico specialista delle fragilità (internista o geriatra), in grado di seguire pazienti altamente instabili, portatori di svariate patologie e che quindi ricevono molti farmaci, a rischio di perdita dell'autosufficienza e di mortalità precoce.
Anche il personale infermieristico deve essere adeguato quantitativamente e nella preparazione specifica, anche per guidare gli altri componenti dell'équipe.

Questi interrogativi esigono risposte prima di passare alla costruzione di nuovi posti letto; infatti oggi assistiamo - sotto la denominazione «ospedali di comunità» (o simili) - a interventi caratterizzati da grandi differenze. Alcuni sono case di riposo mascherate, altri ambienti dove si praticano cure di alto livello (sebbene senza dotazioni tecnologiche), con esiti positivi per le persone fragili.

È un'ambiguità che la politica deve affrontare se davvero vuole lo sviluppo omogeneo e a costi controllati di un settore di grande rilievo umano e clinico.

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