Dibattiti-e-Idee

Dalla canapa al vino alla coca, storie di farmaci e veleni

di Donatella Lippi (Storia della Medicina - Università di Firenze)

«Margherita spiccò un salto e rimase sospesa nell'aria, ad una certa distanza dal tappeto,finché si sentì lentamente attirare verso il basso e ridiscese. "Ah, che crema! Ah, che crema!" gridò lasciandosi cadere sulla poltrona». (C. Bulgakov)

Vola la bella Margherita sopra i tetti di Mosca. Vola, cercando il suo amatissimo perduto Maestro. E lo fa, dopo essersi spalmata sul corpo una crema, la stessa che, per secoli, ha predisposto le donne al volo notturno, trasformandole in streghe.

L'unguentum populeum, risultato di antichi medicamenti per calmare il dolore delle donne, regalava «sogni dilettevoli», che soddisfacevano «bramosie di sensazioni morbose». (G. B. Della Porta, 1558)
Le sigarette allo stramonio, il vino alla coca, i clisteri col tabacco... Farmaco o veleno?

Nella sfuggente definizione della vox media, in queste definizioni prive di colore, si nasconde l'anima prima di sostanze i cui effetti assecondano la scoperta di nuovi orizzonti.
E come il pomodoro passò dal vaso di fiori, sulla finestra della nonna di L'Arlesienne di A. Daudet, alla coltivazione nel giardino del signor Roumanille, ex-soldato dell'impero diventato agricoltore, un analogo destino coinvolge, in questa ancipite percezione, anche «il caffè, il tè, cioccolatte, il mate, e il guaranà [...]i cinque alimenti nervosi caffeici meglio noti \[...\] amici del pensiero ed eccitanti della sensibilità; ma nessuno ha l'azione dell'altro. Ognuno di essi riscalda certa regione del cervello, e ogni cervello trova nell'uno o nell'altro di essi uno stimolo più efficace e durevole». Così, l'antropologo Paolo Mantegazza, nel 1871.
In un'Europa tormentata dalla fame, il desiderio di droghe forti ed efficaci si era diffuso rapidamente, incrementandone i traffici, ma se l'Europa cristiana non poteva ammettere la cultura di evasione e la ricerca dell'euforia, si faceva appello alle ragioni della salute, creando un «alibi intellettuale... per aprire la porta al desiderio».
I medici ne furono il mezzo.

«Ma chere petite Maman, (...) Dopo la lettera di ieri, ho avuto un attacco d'asma e continuo flusso dal naso, che mi ha obbligato a cercare le sigarette anti-asma da ogni tabaccaio (...) e ciò che è peggio, non son riuscito ad andare a letto prima di mezzanotte, dopo interminabili suffumigi».

La sera del 31 agosto 1901, Marcel Proust scriveva alla madre: sofferente di asma sin dall'infanzia, aveva sperimentato tutti i possibili trattamenti. Oppio, caffeina, morfina, le polveri Legras e le sigarette Espic.
Paradosso farmacologico, le sigarette di stramonio, belladonna e giusquiamo gli regalavano frammenti di sollievo.

Usato fra i nativi americani per modificare lo stato di coscienza, anche il tabacco veniva masticato o sniffato, per i suoi presunti poteri terapeutici.
«Erba della regina», aveva curato l'emicrania di Caterina de' Medici.
Il medico olandese Cornelius Dekker (1647-1685) lo considerava una vera e propria panacea: «Si potrebbe scrivere un grosso libro sulle virtù del tabacco, ma basti il dire che il fumare la preziosa foglia è la migliore medicina contro lo scorbuto (...). Il fumare è anche un rimedio che può adoperarsi sempre, dacché noi possiamo godere di questa erba della Virginia dall'alba alla sera. Come l'aria vitale, noi possiamo respirarlo in ogni tempo, posto, condizione e compagnia».

L'erba Nicoziana pareva dotata di straordinarie virtù e il fumo, somministrato sotto forma di clistere, diventava strategia rianimatoria, inducendo la distensione del diaframma e lo stimolo della parete intestinale: «Tuttavìa i clisteri di fumo di tabacco sono costantemente reputati migliori. Pare che questo soccorso siaci venuto in Europa dall'America; ed infatti i popoli selvaggi dell'Acadia (...) riempivano le vesciche di fumo di tabacco, e colla compressione lo spingevano nell'ano de' sommersi, e ne traeano effetti maravigliosi». (P. Manni, 1835).
Prima che l'Anatomia patologica ne rivelasse i danni, in nome del tabacco le donne si unirono nell'Ordine della Tabacchiera e l'uomo indossò lo smoking.

"De usu et abusu": è tra XVIII e XIX secolo che nasce un diverso paradigma per intendere i comportamenti viziati, in un processo di confluenza di mutamenti morali e nuovi modelli medici, all'interno di una più generale tendenza alla medicalizzazione dei costumi eticamente problematici o devianti.

«Morfina lo avevano chiamato, questo rozzo sostituto chimico dello stoicismo antico, della rassegnazione cristiana». (G. Tomasi di Lampedusa)

Il concetto di dipendenza come malattia ha storia recente: l'inizio della produzione industriale e del consumo di massa dei distillati di alcol e dei preparati a base di oppio; l'inserimento di medicina e farmacia nell'economia di mercato; il crepuscolo dell'etica liberale e del liberalismo politico disegnarono la dipendenza come malattia.
Necessità e compulsione venivano a sostituire scelta e abitudine, definendo una drammatica patologia della volontà.

E se Benjamin Rush aveva accusato l'alcolismo, Thomas Trotter estendeva questo modello all'abuso di oppio e cannabis.
Farmaco o veleno?
Gli Antichi rispondevano guardando alle mani del medico, dalla cui purezza sarebbe dipeso l'esito della cura.
Ma prima che Freud studiasse gli effetti della cocaina, 60 grammi delle migliori foglie di coca del Perù, lasciate macerare per 10 ore in un litro di vino Bordeaux, generavano il celebre Vino Mariani (1863) che, consumato dal Pontefice, da re e regine, curava dolori, dispepsia e altri malanni comuni.

Fino al 1900 inoltrato, prima di raggiungere gli altri stupefacenti nella lista delle "droghe proibite", anche la canapa era impiegata come sedativo e antispasmodico: hashish in arabo significa "erba", l'erba per antonomasia, quasi che le qualità psicotrope della canapa sillogizzassero la natura stessa del regno vegetale.

Se si può solo ipotizzare che fosse usata nei santuari di Asclepio o nei siti oracolari, compare forse nel pharmakon nepente, offerto dalla figlia di Zeus e Leda: «Intanto altro pensò Elena, figlia di Zeus. Buttò improvvisa nel vino, di cui bevevano, un farmaco che l'ira e il dolore calmava, oblio di tutte le pene» (Od. IV, 218-221).

È un rimedio che lenisce il tormento, placa la collera e dissipa i mali, come il Pantagruelion di Rabelais, nato per corde, stoffe e vele.
E, nella spongia somnifera della Scuola Medica Salernitana, insieme a oppio, giusquiamo e mandragora, si veste del ruolo più alto: «Divinum opus est sedare dolorem».