Dibattiti-e-Idee

Terra di fuochi e di mamme

di Manuela Perrone

Tre paia di occhi che si guardano, complici, mentre raccontano. Mani che si stringono, come a consolarsi per la prima volta. Davanti a me ci sono Marzia, Imma e Anna: hanno perso di cancro i loro bimbi - Antonio, Mesia e Riccardo - in quella che ormai è diventata una guerra civile: Settentrione contro Mezzogiorno, camorra contro cittadini perbene, società civile contro istituzioni, medici contro medici, contadini contro contadini, industrie sane contro industrie irresponsabili. Benvenuti nella Terra dei fuochi, quel territorio stretto tra il Nord di Napoli e il Sud di Caserta: una polveriera che poggia non sulla dinamite ma su milioni di tonnellate di rifiuti tossici e pericolosi interrati dagli anni Ottanta nel "triangolo della morte", l'agro campano, un tempo fertile e ridente, oggi la Gomorra dei roghi e dei veleni (Saviano vi dedicò l'ultimo capitolo del libro che lo ha reso famoso).

Marzia, Imma e Anna sono gli avamposti della battaglia, e al tempo stesso l'ultima spiaggia, a conferma di un fenomeno noto: quando tutto sembra perduto, sono le donne a scendere in campo. A dire le proprie tragedie. Ad augurarsi, davanti al loro dolore disumano di madri sopravvissute ai figli, un sussulto di coscienza, anche da parte di chi l'ha anestetizzata in anni e anni di omertà o di connivenza. Nella speranza che nessuno possa girarsi ancora dall'altra parte.

Le storie di Marzia, Imma e Anna, che fanno parte dell'associazione "Noi, genitori di tutti", sono maledettamente simili. Le incontro a Formia, grazie all'associazione Libera che anche nel Sud Pontino, dove le mafie da tempo hanno messo radici, combatte la sua lotta per la legalità. Partiamo da quel che chiedono, oggi, dalla ragione per cui sono arrivate a spedire a papa Francesco e al presidente Napolitano migliaia di "cartoline del dolore", che le immortalano con la foto dei figli perduti tra le mani. «Parta ciò che è stato promesso», dice Marzia, 39 anni. «Partano gli screening e si abbassi la fascia d'età prevista. Continui la mappatura dei territori, perché gli scavi si sono fermati all'improvviso. Non è possibile che sia inquinato appena il 2% dei terreni, come è risultato alla prima indagine». «Il dato è falso o le mappature sono sbagliate», aggiunge Imma, 33 anni. «Ci devono prendere sul serio. Siamo un popolo che pian piano sta scomparendo. Ogni 15 giorni muoiono 2-3 persone. Non ne possiamo più dei funerali». I timori sono concentrati sulla bonifica promessa. «A noi e al coordinamento Comitati fuochi interessa che della bonifica si parli, e che i soldi non arrivino di nuovo alla camorra».

I roghi non sono finiti, denunciano le mamme. Ma gli inceneritori a loro avviso non sono la soluzione, nonostante il Governo continui a parlarne. «Sono una condanna a morte», dicono in coro, invitando a imparare dal passato. Perché i termovalorizzatori, come quello di Acerra che brucia 600mila tonnellate di immondizia l'anno, servono a smaltire i rifiuti solidi urbani, non quelli tossici e pericolosi che si continuano a sversare, soprattutto di notte, lungo le strade, o a intombare abusivamente nelle discariche improvvisate che costellano il territorio.

Sono quelle discariche, per queste madri, ad aver assassinato i loro bambini, anche se la scienza ufficiale tentenna e invita al rigore. Sono stati i fumi che esalano dai roghi, quel "bruciore alla gola" a cui sono abituate da anni, a cui prima quasi non facevano caso. E i responsabili del disastro: la camorra, le industrie locali e del Nord che pagavano per smaltire illecitamente al Sud, lo Stato che ha scelto di non vedere.

«Un giorno del 2012 Antonio, il mio unico bambino che aveva otto anni e mezzo, cominciò a rallentare i movimenti», racconta Marzia. «All'ospedale Santobono di Napoli gli diagnosticarono la sclerosi multipla e lo dimisero dopo un mese. Ma mio figlio peggiorava: iniziò a vomitare ogni mattina. Nessuno ci diceva cosa fare, i medici dell'ospedale confermavano la diagnosi. Alla fine fui costretta a consultare un neurologo privato, sempre a Napoli: dopo due giorni ci chiamò e ci disse di portarlo immediatamente al Gaslini a Genova. Qui, finalmente, arrivò la diagnosi, quella vera: glioblastoma multiforme. La neuroncologa che ci seguì, medico di fama mondiale, mi disse che Antonio era un caso raro perché è una patologia che solitamente colpisce gli anziani».

Marzia prende fiato. «La dottoressa mi chiese: "Signora, dove vive?" e io là cominciai a capire». La beffa, drammatica, è che Marzia e suo marito avevano deciso di trasferirsi da Napoli centro a Casalnuovo perché pensavano che in campagna il loro bambino avrebbe potuto crescere meglio. La vita di Antonio è durata un altro anno, ma non è potuto più tornare a casa. «Siamo rimasti tutti a Genova: mio marito, che è militare, ha ottenuto un trasferimento temporaneo. I medici non ci hanno lasciato andare perché pensavano che in Campania non sarebbe stata assicurata la terapia del dolore di cui Antonio aveva bisogno per non soffrire. L'ennesima vergogna di cui le istituzioni sono responsabili».

La rabbia delle mamme è la rabbia di chi si considera vittima due volte: del disastro ambientale doloso e dell'inefficienza della sanità campana. Imma, di Succivo, è la più taciturna. La sua Mesia aveva poco più di due anni quando le fu diagnosticato il neuroblastoma: è morta otto mesi dopo, a tre anni, dopo una via crucis dentro e fuori l'ospedale. Imma ha un altro figlio che ogni tanto ci sgambetta intorno: «È stato così difficile anche per lui. Avevano 16 mesi di differenza».

Anna, invece, è un fiume in piena. A sei mesi, nel 2008, il suo secondo figlio, Riccardo, comincia a stare male. «Io lo vedevo, che qualcosa non andava. Ma la pediatra di base diceva che non era nulla. Dopo qualche mese si coprì di piccoli lividi e aveva sempre una febbricola la sera. La pediatra rifiutò di prescriverci le analisi perché a suo dire il bimbo era troppo piccolo. Alla fine ci siamo dovuti rivolgere a un pediatra privato che ci ha chiesto perché avevamo aspettato tanto. Ci ha indirizzati al centro Sdn di Napoli dove hanno fatto tutti i prelievi: quando i risultati sono stati pronti ci hanno mandato subito in ospedale. Al Posillipon. Leggevo "bimbo in aplasia", non sapevo cosa ci stesse succedendo. Poco dopo ce lo hanno detto: Riccardo aveva la leucemia».

Inizia il protocollo e dopo un anno il bimbo sembra avercela fatta. A un mese e mezzo dalla fine della terapia, però, qualcosa va storto. «La leucemia era tornata, ci dissero che doveva fare il trapianto di midollo. Ho abbandonato la mia casa e il mio primogenito per trasferirmi in ospedale. Non scorderò mai quei tre mesi chiusi, io e Riccardo, nella stanza sterile. A metà agosto eravamo usciti con tutti che ci avevano assicurato che il trapianto era riuscito in maniera eccezionale. Ma il 17 agosto la malattia è tornata. Piangeva un ospedale intero».

Da lì in poi il destino di Riccardo è segnato. Prosegue con le sole terapie di supporto. «Il 13 ottobre decido di riportarlo a casa: è stato un mese della meraviglia, siamo andati alle giostre, l'ho portato al mercato». A novembre 2009, a 22 mesi, Riccardo muore.

A tessere il filo tra i drammi privati di Anna, Marzia, Imma e molte altre donne è stato don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano che è diventato il simbolo della battaglia della popolazione contro la trasformazione della Campania Felix nella "pattumiera d'Italia". «Ci siamo strette intorno a lui - raccontano - che ci ha aperto gli occhi: "Eravate le mamme del triangolo della morte e non lo sapevate"».

Anna ha avuto una bambina, dopo un anno. Ma di andarsene dalla Terra dei fuochi non vuole sentir parlare: «Sarebbe un voltafaccia verso tutti i bambini e le persone che ho conosciuto in ospedale. Verso quella sedicenne che non voleva farsi lavare, per non far toccare il suo corpo trasformato dalla malattia, e che oggi è incinta. Io lotto, ci metto la faccia e la gente lo vede. Perché non deve mai più riaccadere. Sogno che si accenda una luce su questa terra».

È soltanto Marzia che ammette: «Se avessi la fortuna di avere un altro figlio partirei subito, non lo farei crescere qua». E da Imma arriva una doccia gelata: «Io non posso andare via: il cimitero dove riposa Mesia è di fronte a casa mia».

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