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Caso Englaro: il diritto a una morte naturale. Il dossier di Lex 24-Il Sole 24 Ore Sanità

di Paola Ferrari

Nessuna visione della malattia e della salute, nessuna concezione della sofferenza e, correlativamente, della cura, per quanto moralmente elevata o scientificamente accettata, afferma la sentenza, può essere contrapposta o, addirittura, sovrapposta e comunque legittimamente opposta dallo Stato o dall'amministrazione sanitaria o da qualsivoglia altro soggetto pubblico o privato, in un ordinamento che ha nel principio personalistico il suo fondamento, alla cognizione che della propria sofferenza e, correlativamente, della propria cura ha il singolo malato.

L'interruzione del trattamento sanitario non è soltanto un preciso adempimento di un obbligo giuridico, quello di interrompere cure non volute in presenza di un espresso rifiuto del paziente, ma anche preciso adempimento di un più generale dovere solidaristico, che impone all'Amministrazione sanitaria di far cessare tale trattamento, senza cagionare sofferenza aggiuntiva al paziente, laddove egli non voglia più accettarlo, ma non sia tecnicamente in grado di farlo da sé.

Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato c'è spazio - nel quadro della c.d. "alleanza terapeutica", che tiene uniti il malato e il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene, rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della persuasione, perché il compito dell'ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico e attuale.

"Cura" non è infatti ciò che l'Amministrazione ritiene di proporre o imporre al paziente, in una visione autoritativa di salute che coincida solo con il principio di beneficialità - poiché è la cura a doversi adattare, nei limiti in cui ciò sia scientificamente possibile, ai bisogni del singolo malato e non il singolo malato a un astratto e monolitico concetto di cura - ma il contenuto, concreto e dinamico, dell'itinerario umano, prima ancor che curativo, che il malato ha deciso di costruire, nell'alleanza terapeutica con il medico e secondo scienza e coscienza di questo, per il proprio benessere psico-fisico, anche se tale benessere, finale e transeunte, dovesse preludere alla morte.

Opzione curativa, strategia terapeutica e cura sono anche, in questo senso, il diritto e la possibilità di interrompere il trattamento sanitario, già intrapreso e non più voluto o tollerato; la decisione di vivere sul proprio corpo la propria malattia al di là o al di fuori di un pregresso o anche di un qualsivoglia percorso terapeutico; la scelta consapevole e informata, per quanto tragica, di accettare serenamente, anche sol lenendo l'acuirsi della sofferenza, la progressione inarrestabile del male fisico sino alla morte; l'applicazione delle fondamentali cure palliative, ora disciplinate dalla legge 15 marzo 2010, n. 38, e non a caso collocate dall'articolo 1 di tale legge, con una previsione che ha un indubbio valore sistematico, nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza, e la cosiddetta terapia del dolore, l'accompagnamento del paziente nella fase terminale della malattia.

Soltanto in questi limiti, afferma la sentenza, è costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell'interessato, finanche di lasciarsi morire.


La storia giudiziaria del caso. Il confine tra "atto terapeutico" e "accanimento" è labile e non ben tracciato e l'assenza di una legge che regoli le dichiarazioni anticipate di fine vita lascia il medico in una situazione di "responsabilità sospesa". Nei Paesi anglosassoni il termine utilizzato è "futility" nel quale non vi è alcuna incertezza interpretativa. Interruzione dell'alimentazione e sedazione terminale sono problemi sui quali i medici devono confrontarsi "senza rete".

I fatti: il padre di Eluana, deceduta dopo 17 anni di coma vegetativo a Udine nel 1999, nella sua qualità di tutore, impugnava avanti al Tar Lombardia la nota della Regione Lombardia prot. n. M1.2008.0032878 del 3/9/2008, con la quale il Direttore generale della Direzione generale Sanità respingeva la richiesta che la Regione mettesse a disposizione una struttura per il distacco del sondino. In seguito all'autorizzazione rilasciata dalla Corte di appello di Milano, con decreto del 9 luglio 2008, nel giudizio di rinvio disposto dalla Corte di cassazione, sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, e in sede di reclamo contro provvedimento del giudice tutelare del Tribunale di Lecco.

Nell'impugnato provvedimento la Regione Lombardia respingeva la richiesta del tutore «in quanto le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico-assistenziale dei pazienti» . Inoltre, secondo la Regione, ciò avrebbe costituito persino la fattispecie di cui al reato previsto dall'articolo 579 del codice penale (omicidio del consenziente), in quanto nell'ordinamento italiano non è previsto il "diritto di morire", essendo al contrario costituzionalmente e legislativamente consacrata l'indisponibilità del bene alla vita.

La sentenza 4460 del Consiglio di Stato destinata a far scuola ha posto la parola fine alla controversia, nel contempo propone un'argomentazione logica destinata a far scuola nelle decisioni future.

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