Dibattiti-e-Idee

Dove vanno i malati rari

di Barbara Gobbi

Una vetrina per l'Italia ma anche l'occasione per fare il punto sui tanti "buchi neri" da colmare, così come sulla definizione o la prosecuzione di un percorso comune per l'Europa. Questa, soprattutto, è la valenza della Conferenza internazionale sulle malattie rare "Rare Diseases: Europe's Challenges", organizzata a Roma alla Camera dei deputati (intergruppo parlamentare sulle patologie orfane). Protagonista, quel Centro nazionale malattie rare (Iss) che nell'ultimo decennio ha messo in piedi insieme alle Regioni e alle associazioni dei pazienti tutto ciò che sul tema è stato realizzato (un ampio servizio servizio sul tema sarà pubblicato su Il Sole-24Ore Sanità n. 40/2014). A partire dal decreto ministeriale 279/2001 che in Italia ha dato l'avvio alla costruzione di una "infrastruttura" che - seppure ancora in buona parte lacunosa - ha trasformato il nostro Paese in un modello che, insieme alla Francia, detta la linea nell'Ue sul fronte dei modelli di assistenza e di qualità delle cure.

Da noi l'embrione di una rete d'eccellenza, cresciuto poi negli anni e ancora in divenire, è sbocciato proprio con il decreto del 2001. Che ha fissato anche una serie di altri paletti imprescindibili: dall'obbligo dell'accreditamento formale dei centri, in capo alle Regioni, ai criteri di esenzione vincolati a una diagnosi fatta presso un centro che fosse, appunto, "bollinato", fino alla definizione della lista delle malattie rare. Nota dolentissima, visto che l'aggiornamento dell'elenco, che teoricamente avrebbe dovuto avere cadenza biennale, a 14 anni di distanza non è ancora avvenuto. Tanto che oggi la lista italiana sconta gravi carenze, come l'assenza in blocco di tutti i tumori rari e delle malattie infettive, e "gap" su aree particolari, come quella polmonare e neurologica. Anche a questo, serve la Conferenza di Roma: a riaccendere i riflettori su un vulnus da sanare, compito doveroso nei confronti di tutti quei malati rari che, esclusi dalla lista decisamente "invecchiata", non possono avanzare un diritto altrimenti esigibile.

Il messaggio rilanciato al ministero arriva allora forte e chiaro: provvedere al più presto inserendo il nuovo elenco nei Lea in corso di revisione - stando al Patto per la salute - entro il 31 dicembre di quest'anno. E possibilmente prevedere, sempre nell'ambito dei rivisitati livelli di assistenza, gli aggiornamenti necessari in tema di farmaci, parafarmaci, prescrizioni e protesi. Una sfida non da poco e sempre più ardua, a fronte dei tagli per 4 mld in arrivo per le Regioni con la Legge di stabilità, che rischiano di acuire le differenze assistenziali tra le amministrazioni che possono permettersi di erogare anche cure extra-Lea e quelle che sono in sofferenza.

Alla Conferenza di Roma l'Italia è arrivata però fresca di approvazione del Piano nazionale malattie rare , varato il 16 ottobre scorso dopo una lunga gestazione. Un documento non privo di debolezze, forte però della lenta costruzione realizzata sul territorio. E delle best practice che certo non mancano: come l'intesa che oggi vede nove amministrazioni locali (Trento e Bolzano, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Umbria, Puglia, Campania, Sardegna) condividere la stessa "rete", gli stessi protocolli di trattamento e lo stesso sistema informativo. Realizzando una presa in carico uniforme per gli 83mila malati rari che vivono su quei territori. «Questa esperienza - spiega Paola Facchin, coordinatrice del tavolo interregionale per le malattie rare - consente di realizzare una cartella clinica unica del paziente e di far dialogare tra loro tutti gli attori che partecipano alla presa in carico complessiva: dagli ospedali alle farmacie, dai distretti ai Mmg, dai centri di eccellenza ai presìdi sul territorio». Un progetto cui dovrebbe conferire un forte input il documento, inviato all'esame della Conferenza Stato-Regioni, sull'applicazione della telemedicina per i malati rari.

Se le eccellenze in Italia non mancano, banco di prova immediato su scala Ue sarà la selezione degli "Ern" o "European Reference Networks": l'Unione europea ha infatti deciso che proprio sui centri per le malattie rare si lavorerà, nei prossimi tre anni, per la definizione dei criteri delle reti di riferimento previste dalla direttiva 24/2011/Ue sulle cure transfrontaliere. Il bando per l'assegnazione degli accreditamenti si dovrebbe tenere a fine 2015: Regioni e ministero ci stanno lavorando, forti anche del progetto "Community", voluto dalla Federazione dei pazienti "Uniamo" e a cui oggi partecipa Agenas, mirato sia alla definizione di "centro per le malattie rare" sia, nella fase ancora in corso, all'analisi della qualità di servizi e prestazioni erogate.

Restano da sciogliere non pochi nodi: oltre a quelli già evidenziati, altri come la codifica delle prestazioni erogate ai pazienti con malattie rare (ma l'esperienza pionieristica del Veneto ha già segnato la via), la giusta "tariffazione" per i centri che trattano case-mix molto elevati, una ricerca orientata alla genetica ma anche allargata (e quindi finanziata) ad ambiti innovativi come la nanorobotica, le nanotecnologie e al cosiddetto "assessment del danno".
Servono soldi, certo. Ma serve, ne è convinta Paola Facchin e con lei tutti gli esperti, l'attivazione di protocolli basati su evidenza, appropriatezza e controllo dei risultati. Capaci cioè di eliminare gli sprechi e di reinvestire le risorse nella giusta direzione.
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