Europa e mondo

Reportage/ Aiuti in rete per la sanità del Centrafrica

di Michelangelo Bartolo (responsabile del Servizio di telemedicina Ospedale S. Giovanni - Roma)

Tra pochi minuti atterrerò a Banguì, la capitale della repubblica del Centrafrica. Dal finestrino si intravedono intere baraccopoli, quartieri di lamiera immersi nella terra rossa. L’aereo continua a scendere, tocchiamo terra, e le baracche, le lamiere e le tende sono sempre presenti; scorrono veloci sull’oblò e mi accompagnano durante la frenata.

Sembra quasi che abbiano costruito la pista in una bidonville, ma in realtà è accaduto esattamente il contrario: l’aeroporto, presidiato dai caschi blu, è il posto più sicuro per i rifugiati che hanno quindi trovato riparo ai margini della pista. La loro presenza è eloquente nel descrivere un paese appena uscito da una guerra civile ma che ancora fatica a trovare una pace stabile. Nella piazzola di parcheggio dell’aeroporto l’unico aereo di linea è il nostro, poi una dozzina di aerei dell’Onu, Emergency, Medici senza frontiere, Croce rossa, World food programme. Ai lati dell’esigua struttura aeroportuale cumuli di sacchetti di sabbia accolgono avamposti militari con blindati e mitragliatrici che vigilano sulla nostra incolumità.

Metto piede per la prima volta in Centrafrica, uno dei paesi più poveri del mondo. La sua collocazione geografica si evince dal nome ma in genere poco altro si sa, e poco altro sapevo, prima di questa mia ultima missione in terra africana.

Ex colonia francese, paese grande due volte l’Italia con neanche 5 milioni di abitanti di cui più della metà vive, anzi sopravvive, con meno di 1,25 dollari al giorno, è stato sotto i riflettori dei mass media internazionali nel novembre scorso, quando Papa Francesco decise di inaugurare l’anno santo della misericordia nella cattedrale di Banguì, la capitale.

Ma la pace va costruita, rafforzata, sostenuta. E gli ingredienti per renderla duratura passano anche per lo sviluppo del paese attraverso il sostegno concreto al sistema sanitario distrutto dal recente conflitto.

Sono qui, come si usa dire, in missione esplorativa: verificare cioè se ci sono le condizioni per aprire un centro di Cura e prevenzione dell’Hiv con il programma Dream di Sant’Egidio e inaugurare la postazione di telemedicina che, a giudicare dei dati che ci arrivano, funziona ancora troppo timidamente.

Il ministero della Salute, edificio a due piani che si raggiunge percorrendo una strada sterrata e sconnessa, è la prima tappa ufficiale del nostro viaggio. Ci riceve il ministro che ovviamente accoglie la proposta di curare l’Hiv con vivo interesse: nel paese la prevalenza è del 4,7% e le persone curate sono appena 4.000. Ovviamente, dopo anni di guerra le cifre sono molto approssimative ma ci bastano per capire che quando apriremo il nostro centro di cura avremo almeno 200.000 persone come potenziali pazienti.

Il centro sarà gestito dall’associazione «Amici del Centrafrica» che opera nel paese da quasi 15 anni sostenendo una decina di scuole nelle zone rurali. L’associazione è presente da qualche anno anche nella capitale dove aprirà un centro di cura dell’Aids, una scuola di formazione per odontotecnici, specialità medica praticamente inesistente, e un servizio di teleconsulto specialistico sostenuto dalla Global health telemedicine.

È questa una giovane onlus che a dispetto del nome è tutta italiana, che, con la sua rete di circa 100 specialisti volontari garantisce una «second opinion» (anche se talvolta si tratta di una «first opinion») a quesiti medici provenienti da 19 centri sanitari africani.

Un nuovo modo di fare cooperazione ad alto impatto e a costi contenuti che grazie alla moderna tecnologia web-service si sta diffondendo sempre di più. Il programma di cooperazione è sostenuto anche dall’Azienda ospedaliera San Giovanni Addolorata di Roma che da anni ha investito su programmi di telemedicina e cooperazione.

Nei giorni seguenti visito la realtà di Emergency, presente da quasi 15 anni nel paese, che gestisce di fatto l’unico centro chirurgico pediatrico: garantiscono più di 2.000 visite al mese prediligendo codici rossi e gialli. Accolgono qualunque urgenza e operano H24 i casi più disperati che giungono da ogni angolo del paese: perforazioni addominali da febbre tifoide, incidenti stradali, ferite da armi da fuoco, postumi di infezioni da medicina tradizionale ma anche tante complicanze secondarie a semplici trattamenti chirurgici compiuti senza i minimi accorgimenti di sterilità, utilizzando le stesse siringhe per più pazienti. Qui è disponibile l’unica banca del sangue del paese che garantisce 150 trasfusioni al mese: nulla di fronte al bisogno ma tantissimo in termini di vite salvate.

Incontro subito la responsabile, Ombretta Pasotti, donna solare, gentile, concreta. «Ogni giorno, a causa del sovraffollamento, eravamo costretti a mandare via decine di bambini bisognosi di cure - ci racconta mentre visitiamo la struttura - e inviarli all’ospedale pediatrico statale, anche se sapevamo bene che si trattava di una struttura fatiscente. Lì molti bambini morivano di una strana malattia che era stata comunemente nominata “la sindrome del quinto giorno”. Dopo cinque giorni dall’intervento i piccoli accusavano febbre altissima che li portava nel giro di poco tempo alla morte. Dovevamo fare qualcosa».

Emergency ha quindi intrapreso una concreta collaborazione anche con l’ospedale pediatrico statale che dista solo poche centinaia di metri dalla clinica pediatrica dell’associazione. È bastato ristrutturare gli ambienti, introdurre basilari nozioni di pulizia, donare sterilizzatori di ferri chirurgici, formare e motivare il personale locale per far praticamente scomparire la sindrome del quinto giorno. È stata una scelta coraggiosa di chi sa che per investire nel futuro del paese bisogna formare e motivare anche il personale sanitario locale. Formazione che vuol dire anche collaborazione con l’università. Una scelta che si potrebbe quantificare in altre centinaia di vite salvate ma anche un altro piccolo segno di rinascita del paese. Sempre all’ospedale pediatrico la fondazione Bambino Gesù sta ristrutturando, per volere di Papa Francesco, un’intera struttura che sarà dedicata alla malnutrizione e alla riabilitazione.

Altra organizzazione non governativa presente in Centrafrica da 40 anni è il Coopi, che ha sviluppato una trentina di progetti nelle aree più rurali del paese. Sono particolarmente attivi con i rifugiati, aiutano donne vittime di abusi sessuali, hanno programmi di sostegno alimentare e dedicano un’attenzione particolare agli abusi subiti dai bambini.

Mi racconta il loro progetto Claudio Tarchi, un italiano che vive in Centrafrica da quasi trent’anni e che di fatto è l’artefice di tutti questi programmi. Hanno iniziato con progetti di sostegno ai bambini aprendo scuole e favorendo adozioni a distanza nelle zone più isolate del paese e ora anche loro sono attivi nel campo sanitario con programmi contro la malnutrizione e la malaria in collaborazione con la Fao.

Proprio durante la mia missione si è svolta la visita del Vice ministro degli esteri Mario Giro nella repubblica del Centrafrica. È la prima volta nella storia che un membro del governo italiano va in visita ufficiale in un paese decisamente marginale negli scenari della politica estera internazionale.

«Io mi spenderò - ha affermato il numero due della Farnesina - affinché il governo italiano e il mio ministero moltiplichino il sostegno economico in progetti che possono rivelarsi un sostegno concreto perché il Centrafrica non divenga schiava dei signori della guerra». Un modo di lavorare anche per evitare che si crei un nuovo serbatoio di possibili migranti verso l’Europa.

L’apertura di un ufficio della cooperazione Italiana diretta da Andrea Tani è il primo passo per rendere visibile questo impegno.

L’ultimo giorno di missione lo spendo combattendo con il wireless del centro di telemedicina che riesce a spruzzare nella rete solo pochi bit al secondo. Dopo qualche ora di test arrivo alla conclusione che questa volta il problema non è dovuto alla scarsità della banda ma all’economicità del contratto stipulato con il provider locale. No, la fibra ottica non c’è e nemmeno il 4G; ma, come in ogni altra parte del mondo... basterà pagare un po’ di più per essere connessi con il mondo.


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