Europa e mondo

Covid: più spazio alle società scientifiche e sostenere i sanitari, il loro trauma va oltre il burnout

di Alessandra Ferretti

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24 Esclusivo per Sanità24

Per capire in profondità cosa sia realmente accaduto in questi ultimi due anni, sarà necessario prendere materialmente le distanze ed esaminare “a freddo” gli eventi. Ad oggi, però alcuni tasselli sono già chiari e anzi vanno “corretti” in corsa prima che sia troppo tardi. Parliamo dell’esigenza di avere società scientifiche che facciano sentire la propria voce nell’arena politica, dell’indispensabilità di una comunicazione della scienza medica (per sua natura “non-esatta”) comprensibile anche per il grande pubblico, il quale nell’emergenza vorrebbe (invano) risposte certe, e della necessità di prendersi cura degli operatori sanitari che hanno vissuto il trauma, che va oltre il “semplice” burnout.
Sono i temi più urgenti emersi durante il nostro colloquio con Nathan Nielsen, intensivista e specialista in Medicina Trasfusionale della Division of Pulmonary, Critical Care and Sleep Medicine & Transfusion Medicine dell’Università del New Mexico, negli Stati Uniti.
Il professor Nielsen è il rappresentante internazionale per il Nord America al Consiglio della European Society of Intensive Care Medicine (ESICM, Società Europea di Terapia Intensiva) e Direttore esecutivo dell'Accademia della medesima società, nonché co-chiar del Comitato scientifico della International Society on Thrombosis and Haemostasis (ISTH, Società Internazionale di Trombosi ed Emostasi). Come tale, lo specialista è rimasto costantemente in contatto con i colleghi italiani quando nel nostro paese iniziò a diffondersi la pandemia di Sars-CoV-2, anche perché proprio l’Italia fu il primo stato europeo ad averne esperienza.
“L’Italia fu il primo paese che ci mostrò realmente cosa stava succedendo. Nessuno allora credeva fino in fondo a ciò che veniva trasmesso dai media dalla Cina. Ogni informazione credibile sulla pandemia veniva dall’Italia: dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna. Nella percezione generale degli Stati Uniti, il modello italiano fu molto positivo: l’impressione era di persone coraggiose che facevano il meglio che potevano nel bel mezzo della devastazione”.
Nielsen, che in questi giorni si trova in Italia per aver partecipato al 33° Congresso di Anestesia e Terapia Intensiva (SMART) di Milano dal 4 al 6 maggio, è intervenuto con una lectio magistralis al convegno “La mia vita con il Covid-19: segni e sogni” organizzato l’11 maggio dalle Terapie Intensive dell’Azienda Ospedaliero – Universitaria di Modena e dall’Università di Modena e Reggio.
“Negli Stati Uniti – racconta - ogni cosa che riguardasse la salute pubblica è diventata una guerra politica: dalle mascherine alle scuole, ai vaccini. E quando in una questione entra la politica ogni elemento è divisivo, c’è il bianco o il nero, il pro e il contro, e questo non è stato d’aiuto. Si è trattato di un periodo molto strano per chi lavorava in campo medico. Nel mio Stato, il New Mexico, il governo ha cercato di rassicurare i cittadini dando loro le risposte che cercavano, ma con gli eventi che poi si sono susseguiti il risultato è stato comunicativamente disastroso”.
Ed ecco il primo elemento su cui riflettere e agire: “Le società scientifiche – prosegue Nielsen - dovrebbero fare più politica. Ovvero dovrebbero essere più visibili, più coinvolte nell’arena pubblica, diventare la voce della ragione scientifica. La frangia lunatica della popolazione – che non ha né le conoscenze, né tanto meno la preparazione – alzava la sua voce, ma in compenso la parte scientifica non faceva sentire abbastanza la propria, nemmeno per dire ciò che al momento era certo e ciò che non lo era”.
E prosegue: “Sarebbe importante che le società scientifiche prendessero maggiore spazio: hanno le competenze e la multidisciplinarietà giusta per farlo in modo corale. Non sarebbe l’opinione di una persona, ma il parere di una categoria. Questo, sì, farebbe una bella differenza”.
Il tema è strettamente legato al secondo punto sul quale bisognerebbe intervenire fin da ora. “Dobbiamo imparare a comunicare meglio col pubblico non scientifico”, precisa il prof. Nielsen. “Anche negli Stati Uniti, così come in Italia, hanno regnato la confusione, il caos, l’isteria. E laddove imperano questi fattori, impera la paura ancora di più”.
Se tra scienziati si parla la stessa lingua, non così accade tra scienziati e pubblico generale. “Le persone volevano sentire dati certi, ma noi non li avevamo: abbiamo assoluto bisogno di riuscire a comunicare cosa sappiamo e cosa non sappiamo, ma in una modalità in cui il pubblico possa capirlo. In altre parole, dobbiamo costruire un ponte tra scienza medica e grande pubblico, un ponte percorribile”.
Il terzo aspetto a cui dedicare massima attenzione è proprio uno dei due lati di questo ponte: gli operatori sanitari. E ancora il prof. Nielsen, a cui in prima persona il Covid ha portato via affetti familiari, spiega: “Esiste un costo della cura. Un costo molto alto, lo chiamo “compassion fatigue”, la fatica della compassione ovvero un esaurimento emotivo e fisico che porta fino ad una ridotta capacità di entrare in empatia o provare compassione per gli altri. Tu continui a svolgere il tuo lavoro, ma arrivi ad un punto in cui la pentola è piena. Tra le mie braccia è morto un uomo di 33 anni, padre di quattro figli, il quale aveva scelto di non vaccinarsi. In quei momenti la rabbia prende il sopravvento sulla compassione e i perché non hanno alcuna risposta”.
In tali casi l’espressione “burnout” ed il suo significato non bastano più. “Abbiamo assistito a così tante tragedie e morti “inutili”, abbiamo dovuto prenderci la responsabilità di così tante decisioni difficili che si è andati ben oltre il burnout. Esso è solo una parte di quello che ci è successo, che è molto più profondo. Non esiste una parola che possa comprenderlo tutto. Poi ogni esperienza è stata così diversa che non è stato possibile aprire la scatola di ciascuno. Siamo una generazione di operatori sanitari in cui tutto è stato tenuto sotto pressione. Dentro ci sono traumi secondari, stanchezza da compassione e lesioni morali”.
Per descrivere l'impatto psicologico della pandemia sui medici e gli infermieri andrebbe usato piuttosto il linguaggio del trauma. “Lo stress traumatico secondario (cosiddetto Bystander o Passive Trauma) – sottolinea il prof. Nielsen - è la costrizione emotiva che sorge quando un individuo è testimone delle esperienze traumatiche di un altro. Essa può colpire qualsiasi operatore sanitario in qualsiasi momento e ha molte somiglianze con il disturbo da stress post-traumatico. Ipervigilanza, evitamento, flashback, cambiamenti di umore. Può anche comportare sentimenti di colpa e rabbia, causare problemi di sonno e concentrazione e portare all'esaurimento. Sicuramente io stesso l’ho in parte sperimentato durante i periodi più bui della pandemia, e anche dopo”.
Molti operatori sanitari hanno lasciato la professione. “Stiamo assistendo inerti ad una grave emorragia di medici”, aggiunge il prof. Nielsen. “Le ragioni sono molte e diverse. Alcuni lasciano perché sono troppo stanchi, altri perché non possono sopportare l’idea di un’altra ondata, altri ancora perché hanno realizzato che la vita è troppo breve e vogliono fare qualcosa di più gioioso. Un caro amico medico di Hong Kong, ad esempio, figura chiave per il settore della terapia intensiva mondiale, scienziato di fama internazionale e formatore di centinaia di specialisti sta abbandonando la medicina per diventare un cioccolatiere. Buon per lui. Possiamo solo sperare che coloro che lasciano l'assistenza sanitaria stiano camminando verso qualcosa di più luminoso e migliore per loro, e non solo per fuggire dal trauma professionale e dalla perdita”.
Cosa fare dunque? “Questa pandemia ci ha insegnato comunque che siamo resilienti, ci ha dimostrato che possiamo anche fare anche cose che pensavamo impossibili, ci ha dato esperienza del fatto che siamo in grado di raggiungere traguardi incredibili se lavoriamo insieme. Ci sono giorni in cui mi siedo e mi chiedo perché medici, infermieri, terapisti e altro personale ospedaliero tornino al lavoro giorno dopo giorno. E mi rispondo: forse semplicemente perché non sapremmo fare nient'altro, forse perché sentiamo veramente una vocazione inspiegabile, forse perché ci rifiutiamo ostinatamente di lasciarci sottomettere da un nemico microscopico, o perché sappiamo, come mai prima d'ora, che siamo necessari. Qualunque sia la ragione, continueremo a presentarci in corsia, oggi, il giorno dopo e nei giorni successivi. Continueremo la lotta per salvare la vita di coloro che possiamo salvare e per accompagnare con la stessa resilienza coloro che non possiamo”.


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