Sentenze

Cassazione: chi «spia» i colleghi va licenziato. Il caso di un chirurgo plastico

di Manuela Perrone

Intercettare» e registrare le conversazioni dei colleghi in corsia per utilizzarle in una causa per mobbing costa il posto di lavoro. Lo ha chiarito la sezione Lavoro della Cassazione (sentenza n. 26143/2013), confermando il licenziamento di un chirurgo plastico dell'azienda ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino.

Il professionista era stato accusato di aver utilizzato le registrazioni di brani di conversazioni di numerosi suoi colleghi senza che questi ne fossero a conoscenza, per poi usarli a sostegno della denuncia per mobbing che aveva presentato nei confronti del primario. La causa era stata archiviata in sede penale. Ma il medico era stato a sua volta sottoposto a procedimento disciplinare per le intercettazioni "rubate" dopo che i medici spiati avevano scritto alla direzione sanitaria chiedendo provvedimenti «per la prosecuzione da parte di ciascuno di loro di un sereno ed efficace rapporto lavorativo». E la Corte d'appello di Torino aveva respinto il suo ricorso contro il licenziamento.

Il chirurgo ha così provato a difendersi in Cassazione sostenendo che la registrazione «non poteva ritenersi di per sé illegittima, dato che le registrazioni costituivano legittimo elemento di prova utilizzabile in giudizio, salvo il disconoscimento della controparte, e senza che potesse configurarsi in alcun modo una violazione della riservatezza altrui». Né poteva rilevare, a suo avviso, «il fatto che la denuncia presentata in sede penale fosse stata archiviata in quanto ciò non poteva comportare automaticamente l'infondatezza delle accuse di mobbing da lui formulate in sede civile».

Quanto alle proteste dei colleghi, il medico ha minimizzato. A suo avviso, «nemmeno poteva considerarsi rilevante la ravvisata impossibilità di collaborazione con i suoi colleghi dato che la situazione di disagio di questi ultimi si era già manifestata prima dell'episodio delle registrazioni, senza che la stessa fosse stata mai oggetto di rilievi disciplinari».

Per la Cassazione, però, queste tesi sono inaccettabili mentre la Corte d'appello torinese ha «adeguatamente motivato» la legittimità del licenziamento con argomentazioni «immuni da qualsiasi rilievo di ordine logico giuridico». La pronuncia della Suprema Corte evidenzia che le risultanze processuali avevano dato ampia contezza del fatto che il chirurgo «aveva mostrato di aver tenuto un comportamento tale da integrare una evidente violazione del diritto alla riservatezza dei suoi colleghi, avendo registrato e diffuso le loro conversazioni intrattenute in un ambito strettamente lavorativo». I colleghi erano stati intercettati non solo mentre parlavano con il primario, ma «anche nei loro momenti privati svoltisi negli spogliatoi o nei locali di comune frequentazione». E le conversazioni erano state usate «strumentalmente per una denunzia di mobbing, rivelatasi, tra l'altro, infondata».

Nessuna scusante al comportamento del medico, fonte di una «grave e irreparabile compromissione del rapporto fiduciario». Perché è indubbio - scrive la Cassazione - che una situazione simile aveva creato «un clima di mancanza di fiducia», elemento «indispensabile per il miglior livello di assistenza e, quindi, funzionale alla qualità del servizio»