Sentenze

Cassazione: il rifiuto alle cure deve essere consapevole. Confermata la condanna per omicidio colposo di un medico

Il medico che sbaglia diagnosi non può difendersi dall'accusa di omicidio colposo sostenendo che il suo assistito ha volontariamente rifiutato le cure. Perché «il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivocabile e attuale». E deve presupporre la consapevolezza, da parte del paziente, della malattia da cui è afflitto.

Lo ha ribadito la quarta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 17801/2014), dichiarando infondato il ricorso di un camice bianco condannato dalla Corte d'appello di Firenze per omicidio colposo.

In primo grado, con rito abbreviato, il Gip del tribunale di Firenze aveva ritenuto il medico responsabile del decesso di una sua paziente a causa di un linfoma di Hodgkin giunto a uno stadio avanzatissimo senza che fosse mai stato diagnosticato. Il dottore, ignorando persino i segni fisici esteriori della malattia evidenti nelle ripetute visite effettuate, aveva insistito nell'attribuire a fattori psicologici i sintomi e i disturbi lamentati dalla donna, impedendo alla paziente di curarsi e di guarire. I giudici di secondo grado si sono limitati a confermare la condanna, riducendo però la pena da un anno a otto mesi di reclusione.

A sua discolpa il sanitario aveva affermato che la donna, nelle ultime settimane di vita, avrebbe volontariamente evitato ogni terapia. Ma la Corte d'appello, sulla base delle diverse testimonianze acquisite al processo, ha chiarito come la paziente avesse in realtà rifiutato l'assunzione di antidepressivi. Non pensando però che le proprie condizioni di salute avessero una base organica e confidando nella sostanziale correttezza della diagnosi formulata dal medico, al punto da non ritenere necessario rivolgersi ad altri specialisti.

Il professionista si è allora rivolto alla Cassazione insistendo sulla rilevanza del rifiuto delle cure. La Suprema Corte è però nettissima nel rigettare questa tesi. Il punto centrale è stato giustamente sottolineato dalla sentenza d'appello, dice la Cassazione: «Di un rifiuto si potrebbe parlare se da parte del medico vi fosse stata una corretta ipotesi diagnostica e ciò nonostante la persona offesa avesse continuato a sottrarsi alla prescrizione di accertamenti e a non assumere le terapie prescritte».

I Supremi Giudici riformulano i princìpi già espressi in passato (si vedano la sentenza n. 23676/2008 della terza sezione e la n. 26446/2002 della prima sezione) arrivando a questo punto fermo: «In tema di colpa medica il rifiuto di cure mediche consiste nel consapevole e volontario comportamento del paziente, il quale manifesti in forma espressa, senza possibilità di fraintendimenti, la deliberata e informata scelta di sottrarsi al trattamento medico. Consapevolezza che può ritenersi sussistente solo ove le sue condizioni di salute gli siano state rappresentate per quel che effettivamente sono, quanto meno sotto il profilo della loro gravità».
Nella fattispecie senza dubbio il medico ha formulato una diagnosi errata e la paziente si è fidata, rifiutando soltanto l'assunzione di antidepressivi «che in nulla - si legge nella sentenza della Cassazione - avrebbero modificato il decorso della grave patologia che la affliggeva». Mai la donna è stata portata a conoscenza dell'effettiva natura e gravità della patologia. E quindi non c'è alcuno spazio per l'ipotizzato rifiuto di cure, che tra l'altro non si può assimilare a «un comportamento meramente passivo, che può trovare anche nelle scadute condizioni di salute la propria causa».

Per il medico un buco nell'acqua e la condanna ulteriore al pagamento di 3mila euro per le spese processuali.