Sentenze

Mobbing solo quando c'è causa-effetto

di Giuseppe Bulgarini d'Elci (www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com)

La Corte di cassazione, con sentenza 20230 del 25 settembre 2014, nell'ambito del giudizio promosso da un dipendente che affermava la nullità del licenziamento irrogato dal datore di lavoro quale culmine di un comportamento ritorsivo e vessatorio, ha precisato i tratti distintivi e peculiari del mobbing nello specifico contesto lavorativo. Si qualifica come mobbing il comportamento ostile e persecutorio che la vittima subisce da parte dei componenti del gruppo in cui è inserito o da parte del suo responsabile con l'intento di ottenere la sua espulsione dall'ambiente di lavoro. Si tratta di una fattispecie a formazione progressiva, precisa la Suprema corte, che richiede per la sua configurazione una serie ripetuta e protratta nel tempo di atti e di comportamenti vessatori che, valutati complessivamente, risultano diretti a perseguitare la vittima con l'obiettivo primario di emarginarla. La Cassazione si affida a questa definizione di mobbing in ambito lavorativo riprendendo le valutazioni che, a tale proposito, sono state espresse dalla Corte costituzionale e fatte proprie dalla giurisprudenza di legittimità. Tali valutazioni hanno qualificato il mobbing come una condotta vessatoria nei confronti di una vittima ascrivibile a uno o più colleghi, protratta nel tempo e consistente nella ripetizione di azioni ostili, che assumono la forma di persecuzione nei confronti del lavoratore e da cui discendono la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetti pregiudizievoli per la sua personalità e integrità psicofisica. Nel quadro di questa più generale qualificazione si osserva nella sentenza 20230 che, ai fini dell'effettiva configurabilità del mobbing, devono essere contemporaneamente presenti una serie di essenziali e insostituibili condizioni. Il primo requisito consiste in azioni e comportamenti di carattere persecutorio – che sono generalmente illeciti, ma possono essere anche leciti se considerati singolarmente – posti in essere in modo sistematico e prolungato nel tempo con una precisa finalità vessatoria da parte di uno o più dipendenti o responsabili aziendali o anche da parte dello stesso datore di lavoro. Deve quindi derivare da queste condotte persecutorie la lesione del bene salute, ovvero una compromissione dell'integrità psicofisica del lavoratore e la mortificazione del dipendente sul piano della personalità o della dignità. La Corte prosegue evidenziando che, ai fini dell'insorgenza del mobbing, è necessario che tra azioni vessatorie e lesione della dignità personale e/o della salute del lavoratore vi sia un nesso eziologico di causa ed effetto, cui si deve, infine, aggiungere la sussistenza di un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi. Conclude la Cassazione affermando che, data la complessità e specificità della fattispecie, va esclusa la possibilità di ritenere il mobbing implicitamente dedotto dalla parte che ricorre al giudice del lavoro, atteso che è invece necessario allegare e dimostrare con dovizia e precisione gli specifici elementi di fatto e le circostanze da cui si possa risalire ai molteplici elementi che qualificano la figura del mobbing. È stata, quindi, confermata la sentenza della Corte d'appello impugnata dal lavoratore proprio sul presupposto che nel ricorso introduttivo del primo grado di giudizio non era presente alcuna allegazione specifica in merito al fatto che il licenziamento fosse diretta conseguenza di una condotta vessatoria e ritorsiva del datore di lavoro.