Sentenze

Cassazione, nascita indesiderata: la corte si rimette alle sezioni Unite

di Paola Ferrari

Saranno le Sezioni Unite a dire l'ultima parola sul cosiddetto «diritto a non nascere», e al risarcimento, in caso di gravi malattie. Un vero e proprio caso di scuola che ha animato il dibattito giurisprudenziale negli ultimi decenni, da quando la capacità di approfondimenti diagnostici prenatali ha fatto un balzo in avanti. Una giurisprudenza così contrastante che ha spinto la terza sezione civile della Cassazione a rimettersi, con ordinanza n. 3569/2015 del 23 febbraio, al vaglio delle Sezioni Unite. Nella fattispecie, una coppia di coniugi aveva intrapreso un'azione legale contro l'équipe medica e la struttura in cui era nata la figlia affetta da sindrome di Down.
Con l'obiettivo di ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla nascita della stessa, assumendo che la donna era stata «avviata al parto senza che fossero stati disposti approfondimenti, benché i risultati degli esami ematochimici effettuati alla 16ma settimana avessero fornito valori non rassicuranti». Per la coppia, in gravidanza, la madre non fu informata della situazione. Il giudizio civile coinvolse il primario e il direttore del laboratorio di analisi dell'Asl di Lucca, assolti dalle corti di merito secondo le quali «anche a voler considerare provata la volontà della gestante di orientarsi verso l'aborto, non emergono indizi per ritenere che sussisteva il diritto di ricorrere alla interruzione della gravidanza, in presenza dei presupposti di legge, e cioè del grave pericolo per la salute fisica o psichica». Inoltre, affermarono che: «L'ordinamento positivo tutela il concepito e l'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, non essendo configurabile un diritto "a non nascere" o "a non nascere se non sano"» e di conseguenza il risarcimento per il pregiudizio conseguente alla nascita. Tesi contestata dai genitori, secondo i quali la prova della volontà di interrompere la gravidanza sarebbe stata possibile solo in presenza di una corretta informazione. In caso contrario si chiederebbe alla donna una prova diabolica se non addirittura "impossibile".

Due posizioni opposte. Da una parte la teoria secondo la quale "è più probabile che non" «che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto» (Cass. 6735/2002, 14488/2004, 13/2010 e 15386/2011). Precisando, peraltro, che l'esigenza di prova sorge solo quando il fatto sia contestato dal medico (Cass. 22837/2010). La seconda teoria, invece, ritiene che l'aborto non sia decisione automatica e, in particolare, la sentenza 16754/2012 ha evidenziato che in mancanza di una preventiva «espressa e inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica la prova della scelta di abortire non può essere desunta dal solo fatto che la gestante abbia chiesto di sottoporsi a screening neonatali, poiché tale richiesta è solo un indizio privo dei caratteri di gravità e univocità». Ma i contrasti in giurisprudenza non finiscono qui. Ancora più marcato è il contrasto sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno. L'orientamento prevalente esclude vi sia un "diritto a non nascere" o a "non nascere se non sano" (Cass. 14488/2004; Cass. 16123/2006 e Cass. 10741/2009).
Il secondo orientamento, al contrario, afferma che dovrebbe ammettersi che «il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio, il quale si duole in realtà non della nascita dello stato di infermità che sarebbe mancato se non fosse nato (Cass. 9700/2011), ma dei costi e problemi che la nascita malformata comporta, a nulla rilevando né che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe scelto di abortire» (Cass. 16754/2012).