Imprese e mercato

Terapie avanzate, le chance dell’Italia. Scaccabarozzi (Farmindustria): «Rafforzare il network tra pubblico e privato»

di Rosanna Magnano

La prima terapia genica per il trattamento dell'Ada Scid, una malattia rara del sistema immunitario che costringeva i “bambini bolla” a vivere isolati dal mondo. Il primo farmaco di ingegneria tissutale a base di cellule staminali per la ricostruzione della cornea dei pazienti con ustioni oculari, che ha restituito la vista a 250 pazienti. La prima terapia cellulare somatica per il trattamento aggiuntivo di leucemie, linfomi e di altri tumori gravi del sangue. Sono tre terapie avanzate made in Italy, la metà delle sei autorizzate in Europa. Progetti che oltre ad avere in comune l’identità biotech, hanno anche una storia simile: sono idee nate nei laboratori di Università e centri di ricerca pubblici e privati e poi «adottate» dall’industria farmaceutica e portate fino al paziente.

Un legame «a rete» tra pubblico-privato da valorizzare e rafforzare con decisione, sul quale ha Farmindustria ha voluto porre l’accento nel corso del convegno su “Le terapie avanzate: un successo del made in Italy”, organizzato questa mattina a Roma, anche proponendo una ricetta ad hoc per superare gli ostacoli che frenano la creazione di un ecosistema più favorevole alla ricerca biotech.

«I risultati straordinari raggiunti nelle terapie avanzate - spiega Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria - sono frutto di un network hi tech di R&S tra pubblico e privato. E le aziende che operano nel Paese, sia nazionali che multinazionali, sono diventate leader nel settore anche perché possono contare su una serie di eccellenze del mondo scientifico e accademico. Una collaborazione che può innescare un circuito virtuoso per attrarre investimenti, soprattutto nella R&S. Garantire la stabilità normativa, consolidare i fondi per farmaci innovativi – come fa la legge di stabilità 2017 - e cambiare strutturalmente la governance sono le basi perché le potenzialità presenti trasformino l'Italia in hub dell'innovazione».

Le potenzialità ci sono tutte. L'Italia ha le carte in regola per diventare leader nello sviluppo, produzione e commercializzazione di farmaci per terapie avanzate, con 15 siti produttivi sul territorio, 27 progetti in sviluppo in 7 diverse aree terapeutiche. Il settore del farmaco biotech nazionale conta su un fatturato pari a 7,9 miliardi, in crescita dell’8 per cento. Il nostro Paese è inoltre tra i primi 10 al mondo per produzione scientifica. E per qualità delle pubblicazioni nel campo della farmacologia e della drug discovery è al quarto posto nel mondo, dopo Usa, Uk e Germania.

«Nell'ambito della terapia genica e terapia cellulare l'Italia si colloca al 7°posto nel mondo e al 4°in Europa- ricorda Eugenio Aringhieri, presidente del Gruppo Biotecnologie di Farmindustria - e siamo al 6°posto nel mondo e al 3° in Europa per numero di pubblicazioni sull'ingegneria tissutale». Ma l’eccellenza scientifica non basta.

La competizione su biotecnologie e terapie avanzate è globale. Usa,Canada, Giappone e Corea del Sud sono in prima linea. E la posta in gioco è altissima. «Sui 10 prodotti farmaceutici che hanno creato più profitto - spiega Mauro Giacca, direttore generale dell’International Centre for genetic Engineering and Biotechnology, che ha una delle sue sedi a Trieste - solo tre sono medicinali tradizionali, sette sono prodotti biotecnologici, di cui cinque anticorpi monoclonali. Trattamenti innovativi che possono costare anche 150mila dollari a paziente. Che hanno permesso di combattere molte forme tumorali, malattie virali e che possono offrire le armi per vincere la grande sfida della nostra società, quella delle malattie degenerative, legate all’allungamento della vita media».

Opportunità che l’Italia ha la possibilità di cogliere a patto di colmare il gap sul numero di start up, che resta ancora profondo. Il nesso tra Accademia e piccola impresa biotecnologica e poi grande industria farmaceutica va rilanciato e valorizzato per supportare i rischi e i costi elevatissimi della ricerca, creando un nuovo ecosistema più favorevole, che faciliti la transizione dalla ricerca di base alla clinica. «Dobbiamo abbandonare l’idea romantica - prosegue Giacca - del ricercatore che ha avuto un’idea geniale e la sera va nel garage sotto casa per svilupparla. Nella farmaceutica e nella salute non funziona così. L’università va circondata e supportata, bisogna creare dei professionisti del trasferimento tecnologico, esperti nel trovare contatti con i grossi investitori. Su questo fronte l’Italia non è messa molto bene. Il problema è che se un ricercatore internazionale ha una buona idea e vuole svilupparla in business si trova molto meglio a Singapore, dove ci sono sei venture capital fund, o in Gran Breatagna, dove solo nella zona di Londra ci sono 250mila start up. Nella classifica degli Stati più imprenditoriali del mondo noi siamo terzi dal fondo, dopo il Suriname e il Portorico e il nostro numero di start up è la metà di quello dell’Indonesia».

Cosa si può fare, allora, per agevolare la partnership pubblico privato e catalizzare lo sviluppo dei farmaci per terapie avanzate? «Sarebbe opportuno creare le condizioni necessarie per l'attuazione del Regolamento UE 536/2014 sulla sperimentazione clinica - suggerisce Farmindustria - che apre le porte alla ricerca collaborativa, al fine di rendere l'Italia competitiva nei confronti degli altri Paesi Ue. Occorre quindi abbattere gli ostacoli burocratici e migliorare l'efficienza sia delle strutture nelle quali si effettua la sperimentazione, sia le tempistiche di autorizzazione da parte dei comitati etici».

La ricerca oggi cresce in rete. Quindi per essere competitivi, conclude Farmindustria «è fondamentale sostenere l'innovazione attraverso un nuovo modello di R&S che sia d'incentivo per tutti gli attori, Istituzioni, Accademia e Industria; valorizzi l'eccellenza, premiando la competitività e il merito; riconosca, protegga e stimoli l'innovazione».



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