Imprese e mercato

Per rilanciare i laboratori è necessaria una svolta culturale

di Pierangelo Clerici (Fismelab)

Il capitolo generale dell’innovazione in medicina di laboratorio prevede numerose declinazioni: l’innovazione culturale (adeguamento dei corsi di laurea e scuole di specializzazione), l’innovazione scientifica (ricerca di base per nuovi indicatori di patologia), l’innovazione organizzativa (riassetto dei Laboratori secondo modelli territoriali a Rete o Hub and spoke) ma sicuramente un ruolo di primo piano è rappresentato all’innovazione tecnologica.

Spesso si è abituati a identificare l’innovazione tecnologica come strumenti più o meno grandi che sono in grado di eseguire milioni di indagini/anno con poche risorse umane dedicate, se questa è l’immagine che si può avere possiamo sostenere che è solo un’immagine parziale e anche assai distorta rispetto al vero significato che l’innovazione tecnologica rappresenta per la medicina di laboratorio.

La tecnologia per il professionista di medicina di laboratorio è sì rappresentata dallo strumento che sostituisce la manualità dell’operatore ma è soprattutto il sistema diagnostico che va ad utilizzare, sia esso una reazione chimica guidata, una evidenza di sviluppo batterico, la ricerca di eventuali geni di patogenicità il tutto contestualizzato nell’ottica della medicina di precisione e personalizzata. Purtroppo l’immagine del paziente che dopo aver subito un prelievo di sangue o di altro materiale biologico ha tra le mani un referto trasforma un processo analitico e le complessità a esso legate in un mero esercizio tecnico. Così non è. L’innovazione tecnologica, che richiede tempi necessari di sviluppo e notevoli risorse economiche, avvalendosi di esperti del settore, parte dalla trasformazione di un modello di analisi elaborato dalla ricerca di base in un processo industrializzato alla portata dei professionisti che grazie alle loro competenze potranno tradurne il risultato in una diagnosi.

La mancanza di un reale processo di Hta (Health technology assessment) per la valutazione delle tecnologie diagnostiche innovative rende sicuramente più difficile un percorso che definisca “l’appropriatezza” delle novità ma non per questo deve essere negata a priori. Si pensi a quanto avviene grazie all’identificazione di geni potenzialmente oncogeni e quindi alle azione di prevenzione da poter mettere in atto o alla dimostrazione della presenza di milioni di specie batteriche nell’intestino con lo scopo dichiarato di evidenziarne le patogene e le simbiontiche o l’evidenza di marcatori biochimici di sicuro danno cardiaco e non solo di sospetto.

Questi semplici esempi non possono non evidenziare quanto importante sia l’impegno di risorse (siano esse umane che economiche) da parte degli investitori. Quando ammiriamo una macchina di formula uno riflettiamo sempre sul lavoro di progettazione, costruzione e messa a punto che è stato svolto e ne siamo compiaciuti ed ammirati. Perché non possiamo esserlo davanti ad uno strumento che identifica i geni presenti su un cromosoma indicandoci l’eventuale patologia di cui è affetto il paziente? Tutto scontato? Direi proprio di no anche se spesso la banalizzazione dell’indagine di laboratorio diventa strumento utilizzato per ridurre le risorse alla medicina di laboratorio poiché prevale il concetto meramente tecnicistico e non quello olistico di indagine in tutta la sua complessità scientifico-culturale. La medicina personalizzata richiede una revisione importante dei percorsi diagnostici e quindi delle indagini da eseguire sul paziente. Le caratteristiche di familiarità di una patologia, l’età, il sesso, la presenza di comorbidità, trattamenti farmacologici in atto, trasformano il paziente in “paziente unico” e solo una tecnologia scientificamente guidata e costantemente verificata consente di poter rispondere alle domande di salute che la popolazione chiede.

Se l’ultimo Rapporto sulla sostenibilità del servizio sanitario nazionale (presentato alcuni giorni fa) sottolinea come una delle categorie di spreco in sanità sia il “sotto utilizzo” ovvero mancata prevenzione con esami, cure e interventi che incidono per 3,38 mld di euro probabilmente non dovremmo chiederci quanto l’innovazione tecnologica costa ma quanto, se ben applicata, ci consentirebbe di gestire al meglio i costi al fine soprattutto di generare salute. L’innovazione tecnologica non deve, quindi, essere subita dal professionista di medicina di laboratorio ma da esso governata con tutti gli stakeholder del “sistema salute” al fine di rendere concreta la medicina personalizzata con adeguata prevenzione, rapida diagnosi e terapia mirata.


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