Imprese e mercato

Palmisano (Assobiotec): «Ricerca italiana fiore all'occhiello. Ma il sistema va efficientato»

di Rosanna Magnano

S
24 Esclusivo per Sanità24

Un patrimonio tutto italiano di piccole e piccolissime imprese biotech, fortemente orientate all'innovazione, che hanno bisogno solo di un buon trampolino di lancio per trasformare le proprie idee in prodotti competitivi. Quindi investimenti, know how ma anche una forte alleanza tra pubblico e privato che garantisca ai semi più avveniristici della ricerca un terreno fertile su cui attecchire e svilupparsi. Che cosa manca all'Italia? Lo abbiamo chiesto a Riccardo Palmisano, presidente di Assobiotec-Federchimica. «In altri Paesi è più facile - spiega il vertice delle industrie biotecnologiche - mentre in Italia l'interazione tra università e privato è ancora complicata. Ci sono una serie di ostacoli. Il più obsoleto tra tutti è il Professor's privilege, un vincolo che in Europa hanno solo l'Italia e la Svezia, che riserva al docente universitario la titolarità del brevetto di una scoperta maturata all'interno dell'accademia. Ma il vero problema resta il trasferimento tecnologico. C'è difficoltà a far parlare i ricercatori universitari con il capitale. Che può essere capitale di rischio, quindi dai buisiness angels al venture capital e ai fondi di equity, a seconda delle dimensioni dell'azienda, ma possono essere anche imprese, che hanno un forte scouting attivo».

Non ci sono centri di technology transfer in Italia?
Quelli che ci sono, sono piccoli, frammentati e con personale di formazione prevalentemente amministrativa e legale. Quindi abili a fare contratti. Ma per far parlare ricercatori e investitori servono scienziati e persone capaci di fare un business plan. Servono team multidisciplinari. Quelli che fanno il contratto, arrivano dopo. E si può anche acquistare il servizio successivamente. Quello che serve ora è far capire all'investitore qual è la qualità della scienza alla base del progetto e che cosa può diventare quel progetto. Ci vuole qualcuno che affianchi lo scienziato, che sappia indicare gli spazi e l'area di competitività, andando quindi oltre la bellezza scientifica dell'idea, diciamo così.

Su Horizon 2020 l'obiettivo era di arrivare al 3% del Pil investito in ricerca. Siamo vicini?
Per nulla. Siamo tra i grandi Paesi europei quello più lontano da questo obiettivo e ci siamo attestati sull'1,2-1,3 per cento. Quindi investiamo drammaticamente la metà dei nostri concorrenti, se non ancora meno. E non ci stiamo confrontando con gli inarrivabili Usa e Giappone. Ma con Uk, Germania e Francia. Abbiamo un investimento in ricerca sia pubblico che privato assolutamente non adeguato. La nascita in questi anni dei fondi di investimento legati alle scienze per la vita, sono iniziative che vanno nella direzione giusta anche se non delle dimensioni comparabili con i fondi Usa.

Che cosa possono fare i decisori per facilitare il processo di trasferimento tecnologico di queste eccellenze?
Il percorso di una terapia dal laboratorio al mercato ha una serie di tappe: ricerca, reperimento dei capitali, sviluppo, industrializzazione, ricerca clinica, produzione e accesso. In molte di questi step abbiamo delle assolute eccellenze. A partire dall'impact factor dei nostri ricercatori e dalla qualità della nostra ricerca clinica. Noi abbiamo i migliori al mondo in campi come l'ematologia, l'ematologia pediatrica, le neurologia, in molte aree delle malattie rare e in immunologia. Nella produzione farmaceutica abbiamo superato addirittura la Germania con i nostri stabilimenti. Manca qualcosa che incolli i vari pezzi e li faccia diventare un percorso fluido e non un percorso a ostacoli. Basti un esempio su tutti: la normativa nazionale sulla sperimentazione animale, prorogata di tre anni, è più restrittiva di quella che adottano i nostri competitor, e tra un anno ce la ritroviamo sul tavolo, con la prospettiva di perdere tutta la ricerca pre-clinica sugli animali. Non dobbiamo fare peggio degli altri e allargare le maglie - io a casa ho due gatte e due cani - ma avere le stesse condizioni di Francia e Germania, perché della sperimentazione animale non si può fare a meno. Sembra una sciocchezza ma la nostra corsa è irta di ostacoli. E poi bisognerebbe rendere strutturali le agevolazioni fiscali esistenti, come il credito d'imposta e il patent box, per dare certezze agli investitori.

Questo Governo è sensibile alle priorità che avete indicato?
Al Forum Ambrosetti il ministro dell'Istruzione, dell'università e della ricerca Marco Bussetti si è mostrato molto sensibile all'idea di creare un'Agenzia unica per la ricerca, già esistente nel Regno Unito per esempio. E Bussetti ha proposto di riportarla alla Presidenza del Consiglio. Un'agenzia che non deve essere intesa come un nuovo centro di costo, ma come un organismo snello che dreni e riorganizzi tutte le fonti di finanziamento che ora sono frammentate o non utilizzate. In primis i fondi europei. Coordinando i quattro ministeri competenti e le regioni. Un'agenzia con due gambe: un centro di trasferimento tecnologico e uno sportello, sul modello dell'Irlanda, dove sono presenti molte multinazionali, che possa dare tutte le informazioni - agevolazioni fiscali, regole e normative - necessarie a una piccola impresa così come auna filiale di una multinazionale straniera. Ora l'Italia deve attirare stabilimenti nuovi, che producano proteine ricombinanti, anticorpi monoclonali , terapia rigenerativa, genica e cellulare. Bene i prodotti di sintesi chimica ma non sono il futuro.

Il rischio da scongiurare è l'ennesimo scatolone..
Il costo deve essere basso. Tutti gli enti hanno come mission di incentivare la ricerca sulle scienze per la vita. Ma la strategia di lungo termine nazionale dovrebbe essere decisa dall'agenzia, che dovrebbe armonizzare i finanziamenti esistenti e rendere efficiente il sistema. Anche se non si può fare un'armonizzazione totale. Evitando finanziamenti a pioggia, come è stato finora.

Che succede in altri Paesi?
In Francia c'è una banca di investimenti pubblici, che decide su quali progetti e startup puntare e avendo una commissione di valutazione di alto livello riesce anche a guadagnare. Questo in Italia non lo dovrebbe fare l'Agenzia, ma Cassa depositi e prestiti e comunque servirebbe un investimento pubblico che aiuti la partenza di queste iniziative. Poi in Inghilterra ci sono i cosiddetti catapult, ovvero degli incubatori dove chi non ha le risorse può condividere gli strumenti necessari in una fase pre-competitiva. Basta seguire gli esempi giusti.


© RIPRODUZIONE RISERVATA