In Parlamento

Il Senato dice sì al Governo Letta. A sorpresa Berlusconi fa votare la fiducia

Il governo Letta ha ottenuto la fiducia al Senato con 235 voti a favore e 70 contrari. I senatori presenti erano 307 i votanti 305, 2 non hanno partecipato al voto. Nessuno si è astenuto.

Il dietrofront di Berlusconi. Dopo un tira e molla durato tutta la mattinata, Berlusconi ha deciso a sorpresa per la fiducia al Governo Letta. «Noi abbiamo fatto tutto quello che era nelle nostre possibilità, accettando di avere solo cinque ministri - ha detto il leader Pdl - perché pensavamo di poter cambiare il clima di questo nostro Paese: una sorta di pacificazione a quella che quella che qualcuno ha chiamato la nostra guerra fredda civile. Questa speranza non l'abbiamo deposta, la conserviamo ancora. Abbiamo ascoltato le dichiarazioni del premier sulla riduzione delle imposte sul lavoro, della pressione fiscale, sull'impegno per la responsabilità civile dei giudici. E abbiamo deciso, non senza interno travaglio, di esprimere un voto di fiducia».

Voto che appare come un tentativo in extremis per evitare la spaccatura plateale del partito dopo la mozione a sostegno di Letta firmata da 23 dei suoi tra cui Quagliarello, Formigoni e Sacconi. Ma la rottura tra falchi e colombe non pare sanabile. Lo stesso Quagliarello parla di «due classi dirigenti incompatibili» anche se i dissidenti tentano maldestramente di gettare acqua sul fuoco. Capita così che Lupi assicura che no, non si farà un nuovo gruppo perché il Pdl è di nuovo compatto. E che nello stesso momento Formigoni dica che sì, nasceranno due nuovi gruppi: uno alla Camera e uno al Senato, ciascuno con almeno 25 componenti. Pare confermarlo la mossa di Fabrizio Cicchitto, che a Montecitorio ha firmato autonomamente la risoluzione di maggioranza (aggiungendo la sua firma a quelle dei capigruppo Roberto Speranza, Pd, Lorenzo Dellai, Scelta civica, Pino Pisicchio, Centro democratico e Renato Brunetta, Pdl).

I numeri in Senato. La maggioranza resta comunque quella di prima, anche se le forze moderate escono vincitrici dal confronto. A guardare i numeri e le sigle, il risultato di oggi sembra per il resto per lo più la fotocopia di quello del 30 aprile scorso, quando il Senato venne chiamato ad esprimere la sua fiducia al governo Letta al suo insediamento. Allora votarono sì 233 senatori, dei gruppi Pd, Pdl, Gal, Autonomie-Psi, Scelta civica, mentre espressero voto contrario M5S e Sel (in tutto 59), si astenne la Lega Nord (gli astenuti furono 18 su 16 leghisti). Oggi si confermano i senatori favorevoli (235). I gruppi a sostegno del premier sono Pd, Pdl, Scelta civica, Autonomie-Psi. Gal, a dispetto della dichiarazione di voto contro la fiducia, poi ha seguito le indicazioni di Berlusconi e si è espressa compatta, tranne il capogruppo Mario Ferrara, che non si è presentato al voto in coerenza con l'intervento in Aula, e Giulio Tremonti, che aveva già annunciato di non avere intenzione di partecipare a «sceneggiate tragicomiche».

Contrari ancora Sel e M5S (tra questi ultimi assenti solo Crimi, Orellana, Marton), a cui si aggiunge anche la Lega Nord, per complessivi 70 senatori, tra cui figura anche il pidiellino Vincenzo D'Anna, in linea con la sua dichiarazione in dissenso. Tra le fila del Pdl risultano assenti dal voto, pur presenti a Palazzo Madama, Sandro Bondi, Remigio Ceroni, Augusto Minzolini, Alessandra Mussolini, Francesco Nitto Palma, Emanuela Repetti. Gli ultimi in assoluto a votare, dopo l'insistente richiamo del presidente Grasso verso i senatori che dovevano ancora esprimere il voto a conclusione delle due chiame, saranno un Renato Schifani visibilmente provato e il vicecapogruppo Pdl, Giuseppe Esposito.

L'appello di Letta. Nel suo discorso ai senatori il premier ha richiamato tutti al senso di responsabilità. «L'Italia - ha detto - corre un rischio che potrebbe essere fatale, sventare questo rischio dipende da noi, dalle scelte che assumeremo, dipende da un sì o un no». Una sfida ad andare avanti per non far sedere di nuovo l'Italia «sul banco degli imputati». Una sfida a Berlusconi, anche, che il Governo delle larghe intese aveva voluto e sostenuto fino alla sentenza di condanna a quattro anni di reclusione per frode fiscale. Vicenda su cui Letta è tornato, ribadendo la posizione già espressa: «Si è creata una situazione insostenibile, i due piani non possono essere sovrapposti. La nostra Repubblica si fonda sullo Stato di diritto e in uno Stato di diritto le sentenze si rispettano e si applicano, fermo restando il diritto intangibile alla difesa che è concesso a un parlamentare come a qualsiasi altro cittadino, senza leggi ad personam né contra personam».

«Il Governo è nato in Parlamento e , se deve morire, deve farlo qui in Parlamento», ha affermato Letta. Poi, nella replica, quando ormai era diventato chiaro che nelle file del Pdl si era consumata la frattura, il premier ha certificato che «la maggioranza è cambiata» e che ora ci sono «nuovi numeri». Utili. Perché - ha ricordato - per uscire dalla crisi «serve un vero e proprio nuovo patto di governo» , basato sul valore della stabilità. «Il Paese - questa la diagnosi del premier - è stremato dai conflitti di una politica ridotta a continui cannoneggiamenti ma immobile e ripiegata su stessa. Ora basta con la politica di trincea, concentriamoci su ciò che dobbiamo fare».

La lista è lunga. Letta è partito dalla «riforma delle istituzioni», mai stata così a portata di mano («12 mesi da oggi», ha assicurato). Ha citato la legge elettorale: «In caso di crisi potremmo scivolare verso elezioni che consegnerebbero il Paese a una situazione di ingovernabilità, per colpa di una legge elettorale che non è in grado di indicare un vincitore». Ha ri-agitato lo spettro dell'economia. «L'Italia è ora avviata a una graduale ripresa, abbiamo alle spalle un incubo, abbiamo perso otto punti di Pil e un milione di posti di lavoro, ora abbiamo l'obiettivo di una crescita dell'1% nel 2014 e superiore negli anni a venire». Impegni che Letta si prende promettendo che l'Italia rispetterà i vincoli europei e resterà sotto la soglia del 3% dell'indebitamento grazie a un piano di riduzione della spesa già affidato al nuovo commissario per la spending review Carlo Cottarelli, dirigente del Fondo monetario internazionale.

Letta ha anche promesso un calo delle tasse: in primo luogo quelle sul lavoro «sia dal lato delle imprese sia su quello dei lavoratori». Sull'aumento dell'Iva (casus belli scelto da Berlusconi per far dimettere i ministri) non si è pronunciato: si è limitato ad annunciare una «revisione complessiva delle aliquote».

Il premier non poteva infine non giocare la carta europea: «Nel 2014 l'Italia assumerà la presidenza dell'Unione Europea. La prossima voltà sarà tra 15 anni. Non possiamo permetterci di far tacere o mancare la voce dell'Italia». Per il monito finale ha scelto di citare le parole che Benedetto Croce pronunciò ai costituenti l'11 marzo 1947, esortandoli a non prepararsi «con un voto poco meditato» a «un pungente e vergognoso rimorso».