Lavoro e professione

«Il futuro ha un cuore antico». Intervista esclusiva a Costantino Troise, segretario nazionale Anaao Assomed

di Roberto Turno

Lavoro, lavoro, lavoro. Per i giovani in camice e per i dottori più o meno attempati che non possono essere rottamati con un renziano colpo di bisturi. E per salvare il Ssn. «Il lavoro è la chiave di volta non solo per cambiare la sanità, ma per cambiarla in meglio. Da qui si deve ripartire. Ora, subito». Costantino Troise, segretario nazionale dell'Anaao dal 2010, sta preparando nei suoi due fortini genovese e romano un delicatissimo 23° Congresso del suo sindacato. Il Patto incombe e le incertezze crescono. Sul destino del Ssn, ma anche su quello che sarà della professione, del sindacato, delle nuove generazioni. Di un futuro insomma del tutto imperscrutabile.

E non lascia niente in sospeso, Troise, in questa lunga conversazione a pochi giorni dal congresso Anaao che sancirà anche la piena applicazione del nuovo Statuto, con tanto di spazio nuovo per donne e giovani. «Entra aria fresca», ma senza rottamazione o «bipolarismi generazionali», che magari potrebbero spaccare l'azione sindacale in nome di «vantaggi personali» a tutto «danno della categoria». Anzi, precisa Troise in vista della rielezione: «Vogliamo costruire un laboratorio di under 40» e chiamarli a prendere posizione. E assumersi responsabilità con tanto di oneri sindacali, che poi sono il sale della vita civile e sociale. Non solo parole di circostanza, quelle che a Troise preme sottolineare. Fatto sta che tra la citazione di Primo Levi nello slogan del Congresso («la sanità ha un cuore antico») e quella di Francesco De Gregori («i Lea siamo noi»), Troise non solo rivela una carta d'identità di un'epoca precisa e ben scandita per intere generazioni e anche per quelle attuali, ma lancia un ponte ideale verso il futuro prossimo. Che poi è l'oggi.

E dunque: anche per il sindacato, come per i partiti, non esistono più rendite di posizione: e perciò ora tocca rimboccarsi le maniche e pedalare. E a proposito di camici bianchi: va abbandonata la contrapposizione tra coriandoli di rappresentanza per ragionare in termini di "medici" e non di "medico", includendo anche i convenzionati. È chiaro che le "forme" saranno tutte da individuare, a farcela. Facendo attenzione a un Patto che esclude i professionisti e le categorie e che dietro il taglio dei posti letto nasconde soltanto il taglio dei posti di lavoro, «Ripartire dal lavoro», appunto. Pensando agli «azionisti veri» del Ssn, i cittadini. Che senza medici all'altezza «rischiano di avere in mano solo carta straccia, azioni che non valgono niente». (mettendosi però davvero tutti in gioco, aggiungiamo noi. Dunque, anche i medici).

Segretario, «La salute ha un cuore antico» recita il titolo del Congresso Anaao. Un cuore antico, dunque debole...
Non è detto che ciò che è antico sia per forza debole. Lo diceva Levi che il futuro ha il cuore antico, ma non per questo dev'essere un orpello. Lo slogan fa riferimento a un percorso di continuità con gli elementi costanti di un mestiere, quello del medico, dedito alla cura, e quindi a tutelare la salute dei cittadini, che sono esplicitati nella passione e nell'orgoglio di chi fa questo lavoro nonostante tutto. E che sono gli ingredienti fondamentali di un lavoro messo oggi fortemente in discussione. L'idea era quella di recuperare in una prospettiva futura gli ingredienti secondo noi ancora validi del più antico mestiere di cura, da Ippocrate in poi.

«I Lea siamo noi», ha scritto di recente. Da Levi a De Gregori, il passo è breve...
Tutta questa discussione sui Lea, sulle risorse umane, sul lavoro oggi svilito, sulla centralità delle professioni, dimentica un dato fondamentale e indiscutibile: chi dà i contenuti professionali ai Lea sono i medici. E chi è chiamato a decidere, anche in tempi rapidissimi, in un modo che fa la differenza tra la vita e la morte, tra salute e malattia, sono sempre i medici. Alla fine, tutto il resto si colloca prima o dopo l'intervento del medico. E vale solo ciò che egli sa, che sa fare e che sa essere.

Ripartire dai medici, insomma.
È l'elemento da cui ripartire, richiamando all'orgoglio ma anche all'essenzialità indiscutibile di certe funzioni in un sistema sanitario. Oggi c'è grande enfasi sulle Regioni in piano di rientro che pare stiano aggiustando i conti. Ma quando penso ciò che accade all'ospedale di Cosenza, dico che il prezzo di questo risanamento è la desertificazione, è la negazione della cura, dei diritti. Allora mi chiedo qual è il punto di equilibrio e se ne vale la pena.

Un sindacalista non ospedaliero mi disse anni fa: «Noi, azionisti forti del Ssn». Ma gli azionisti non sono altri?
L'azionista nel senso di proprietario del Ssn sono i cittadini, il primo ed essenziale punto di riferimento di ogni azione sanitaria. Mentre i medici sono un elemento irrinunciabile di un percorso che consente all'azionista di far valere il peso delle proprie azioni. Senza i medici quelle azioni rischiano di diventare carta straccia e il cittadino di essere un azionista forte ma con azioni che non valgono niente.

Il Paese cambia, i partiti sono in crisi e gli elettori li puniscono. E i sindacati di che salute godono?
È innegabile, e non perché lo dice il Governo, che la crisi di rappresentanza abbia raggiunto anche i sindacati. Si fa sempre più fatica a reclutare e a ottenere la disponibilità di colleghi per quella che considero una passione civile. Anche per i sindacati le rendite di posizione sono finite e ogni giorno occorre dar conto agli iscritti di quello che si fa e di quello che si vuole fare. Ma la crisi di rappresentanza non è un effetto della cancellazione della concertazione da parte della politica. La crisi l'avvertiamo perché fatichiamo ad avere nuovi iscritti e a tenere i nostri. Per non dire che c'è la gobba demografica che avanza e facciamo fatica a introdurre nuovi iscritti in grado di dare una lettura diversa di quella che deve essere l'attività sindacale.

Che numeri ha l'Anaao?
A parte i dati Aran che sono vecchi e non misurano a esempio Trento e Bolzano, o i contratti a tempo determinato, considerando anche l'ingresso dei biologi nel sindacato arriviamo al congresso con 22mila voti. Che fanno dell'Anaao un gigante. Ma in mezzo ai nani. Questo è un problema da risolvere: dovremmo decidere quale forma di rappresentanza più semplificata dare a questo mondo se vogliamo far pesare la massa critica dei numeri in maniera non isolata.

A quale forma di rappresentanza pensa?
Guardando la situazione nella dipendenza, ci è almeno una decina di sigle subito al di sopra della soglia di rappresentatività che sono però coriandoli più o meno grandi che probabilmente hanno un senso solo se si uniscono in una massa unica "pesante", anche come interlocuzione. Serve un minimo comune denominatore anche professionale con il mondo della convenzionata e per questo sono necessarie riflessioni serie che prima si fanno meglio è. Noi oggi continuiamo a parlare del "medico", ma dovremmo cominciare a parlare dei "medici": le differenze tra le varie famiglie sono di un certo rilievo e rischiano di trasformarle in ordini autonomi se non si trovano elementi comuni della professione che possano costituire una sorta di piattaforma professionale unica dell'essere medico di fronte allo Stato. Dopodiché questa va arricchita con le esperienze di ognuno.

L'Anaao intanto va a questo congresso col nuovo Statuto che ha previsto una revisione interna e un ruolo maggiore di giovani e donne. Che accade adesso?
I congressi regionali hanno cominciato a seguire il nuovo corso e abbiamo già molte donne e molti giovani negli organi statutari a partire dalle segreterie e anche come vicesegretari regionali. Lo vedremo anche nella dimensione nazionale. Al di là dei numeri, l'idea è di costruire un laboratorio di under-40, che siano chiamati ad autorganizzarsi e a prendere posizione con propri pareri. Vogliamo evitare bipolarismi anagrafici e contrapposizioni generazionali. Sfruttando i quali, magari, qualcuno pensi di ottenere vantaggi personali danneggiando la categoria.

È più difficile essere medici coi capelli d'argento o giovani medici che il posto non lo hanno?
Credo che le difficoltà siano comuni. Il medico con i capelli d'argento sopporta un disagio ormai consolidato e un linguaggio che da venti anni a questa parte non solo lo taglia fuori da ogni ruolo decisionale, ma che fa anche fatica a comprendere: benchmark, spending review ecc. Il medico coi capelli neri fatica a entrare nel mondo del lavoro, sospeso tra una formazione infinita e un mondo del lavoro che lo prende col contagocce, non vede un futuro previdenziale né sbocchi di carriera che possano valorizzare quello che fa e che vuol fare. Il disagio della professione ha espressioni diverse a seconda dell'età e anche del genere, ma ha anche fattori comuni.

I pazienti però cercano il medico più esperto.
In sanità si è sempre pensato che anzianità faccia rima con esperienza, tanto che in anni passati la progressione di carriera è stata legata proprio all'anzianità.

Insomma, segretario, diciamo non sempre...
Oggi non è più così o lo è solo parzialmente. Siamo stati i primi a slegare la progressione di carriera dall'anzianità e dal posto in pianta organica. Oggi già dopo cinque anni dall'assunzione si possono avere il grado più alto dal punto di vista professionale e i valori economici più alti, secondi solo a quelli del primario.

Tre argomenti in apparenza diversi, ma uniti da un filo comune: specializzazioni, programmazione degli accessi all'università, precariato. Vale la conquista di Roma...
La condizione medica va declinata sia per quanto riguarda il precariato sia per il sistema formativo. C'è una grande corsa a sanare la differenza tra laureati e contratti di formazione specialistica, ricorrendo a un incremento di oneri economici disponibili: lo Stato non può pretendere 10mila laureati e solo 3-4.000 specialisti disinteressandosi degli altri che hanno anche l'obbligo di mantenere le proprie competenze professionali. Ma abbiamo un problema non solo di quantità di specialisti, ma anche di qualità del prodotto formativo. L'università ci consegna un prodotto grezzo sul quale dobbiamo poi lavorare daccapo. E per quanto riguarda il precariato, quello degli anni '80 aveva la caratteristica di essere dello stesso tipo, quindi facilmente sanabile, mentre oggi ci sono forme di rapporti atipici, co.co.co., libero professionali, avviso pubblico, per cui si fa fatica a stabilizzare tutti quanti. Ma non è possibile arrivare a 40 anni con un'attività precaria che si rinnova di sei mesi in sei mesi. L'azienda non investe sul medico precario e il medico precario non investe sull'azienda. Col risultato che così anche la continuità delle cure e la formazione continua vanno a farsi benedire. La situazione va sanata e va messo un freno ai contratti atipici. Il che non vuole dire che non si possa ragionare su un periodo di flessibilità prima dell'attività di lavoro.

Poi c'è la lotteria dell'accesso a medicina.
Per ora si parla solo degli estremi, passando dai quiz alla grattachecca a un metodo che vorrebbe dire affittare le discoteche per poter fare lezione. Il metodo francese ha senso, ma in Francia. Non si può trasferire un metodo senza il contesto in cui è nato. Occorre mettere mano alla riforma della docenza, dovremmo chiamare finalmente i ricercatori a insegnare, aumentare la logistica per la didattica, uniformare gli esami del primo anno sia per tipologia che per metodologia di esecuzione. C'è bisogno di una riforma dell'Università che va fatta prima e non dopo o durante il corso di studi. È incredibile dover parlare di idee lanciate via twitter e che si possa pensare di mollare un sistema criticabile (e io lo critico) per fare un salto nel vuoto a cui si espongono 80mila persone.

Spuntiamo le unghie all'Università?
L'idea di rivedere il ruolo delle Università e delle circa 43 Facoltà di medicina, devo dire, comincia a fare capolino anche tra le Regioni. Quando i soldi scarseggiano... Oggi le Regioni sono tutte assolutamente pronte a obbedire ai desiderata dell'Università e a considerarla una variabile indipendente del sistema al di fuori di piani di rientro, di obblighi e di qualità del prodotto che è chiamata a dare. Ma quando si guardano gli sprechi, si deve guardare anche da quella parte. Perché dappertutto sono state ridotte le strutture complesse a direzione ospedaliera ma per quelle universitarie a volte si fa altrimenti? Siamo all'assurdo.

Cosa si aspetta, Troise, cosa vorrebbe e cosa teme del Patto per la salute?
Dal Patto mi aspetto si traduca in un "regolamento di conti": che le Regioni e lo Stato facciano, cioè, un compromesso sul finanziamento e che venga restituita alle Regioni una parte di quello che è stato loro tolto in questi anni, o comunque si prometta di restituirglielo. E che i famosi 10 miliardi di risparmi annunciati non siano un trasferimento di oneri nelle tasche dei cittadini. Sul fatto poi che i risparmi restino tutti in sanità, ho i miei dubbi, ma prendo per buona la promessa del ministro. La questione vera è che se si vogliono fare risparmi reali occorre reclutare intelligenze e competenze professionali e fare un patto coi professionisti.

I tempi per questo Patto sono scaduti, però.
Si può sempre trovare una forma, un modo per discutere il nuovo compromesso sociale tra professioni e Stato. Credo che la logica emergenziale ci darà a un certo punto tregua e quindi tempo e modo per discuterne: ora qualcuno si prenda la responsabilità di dire "mi interessa" o "non mi interessa". Quello che temo del Patto, invece, è che si riduca a un discorso chiuso tra istituzioni, escludendo cittadini e professionisti che a quell'azione danno valore.

Gli interventi sulla rete ospedaliera sembrano scontati.
Sono dieci anni che assistiamo a interventi sulla rete ospedaliera e sono scomparsi 70mila posti letto. Ma tutto ciò non mi pare abbia avuto altri risultati se non di creare quello che sta avvenendo nei pronto soccorso, da Nord a Sud: il vuoto. Un conto è individuare una «rete» e ragionare in questa logica per cui l'ospedale è parte della «rete» con tutto ciò che accade sul territorio, e si è in grado di rispondere in modo differenziato alle esigenze di salute. Altro è pensare che tutto il male sia dentro l'ospedale e tutto il bene fuori. È necessario ragionare sull'adeguamento della «rete» anche in base all'educazione di un medico, ragionare sui livelli organizzativi: non mi si deve dire più solo quanti ospedali si vogliono, ma anche quanta gente serve e cosa si deve fare perché siano veri ospedali.

Ha paura che non avvenga?
Altrimenti avremmo quinte teatrali vuote di attori, incapaci di svolgere il ruolo che gli si vuole assegnare. Tutta la storia dei posti letto è stata messa su per ridurre le dotazioni organiche. Il risparmio non è sulle lenzuola, ma sul personale che si vuole rideterminare al ribasso. Oggi in molte Regioni, soprattutto quelle in piano di rientro, questo ribasso sta ostacolando le cure e il sistema fatica a funzionare e si regge sul sacrificio di medici e infermieri. Il resto sono chiacchiere.

Il contratto è passato ormai in cavalleria?
Il contratto è un tema su cui si deve tornare cogliendo non solo la mossa tattica di captatio benevolentiae della proposta di riforma della Pa che parla dal prossimo anno di riapertura anche dal punto di vista economico. Il contratto è interesse del sistema: se si vuole cambiare e innovare, è lo strumento adatto. Noi continueremo a chiedere con forza una trattativa contrattuale o che si riprendano le fila del contratto ancora vigente o che si faccia un punto su regole e norme e istituti economici con le Regioni.

Lo stato giuridico, a esempio. Ne chiedete uno nuovo.
Dobbiamo ritagliare una diversa collocazione nel pubblico impiego. Si tratta di riprendere l'articolo 15 del 229 che segnala una dirigenza speciale, di fare le opportune modifiche legislative e di richiedere con forza una specificità della dirigenza sanitaria. D'altra parte la riconosce lo stesso Governo dicendo che il ruolo unico della dirigenza non riguarda scuola e sanità.

Con la riforma del Titolo V lo Stato sembra poter acquisire un ruolo più forte rispetto a questo bislacco federalismo. Ci crede?
Può essere, ma se definiamo gli ambiti in cui lo Stato è più forte. L'enunciazione di norme generali dice tutto e niente. E il tutto o il niente dipendono dai concetti in causa. Pur essendo impossibile un ritorno al centralismo, occorre definire materie che rimangono in un ambito unitario: Lea, livelli organizzativi, stato giuridico, requisiti e competenze del personale, garanzia di contratti e convenzioni. Si tratta di definire livelli di intervento che assegnino allo Stato una serie di elementi che non possono essere affidati alla variabilità delle singole Regioni, se non addirittura - come accade oggi - delle aziende. Ora esistono differenze anche sostanziali come le modalità di assunzione, l'assistenza farmaceutica, la garanzia dei Lea e chi più ne ha più ne metta. Siamo tornati a un "feudalesimo", più che aver raggiunto un federalismo sanitario.

Pace fatta con le professioni sanitarie? Il nodo delle competenze infermieristiche vi ha agitato.
Io non ho litigato con nessuno e non ho da fare pace con nessuno. Ma i problemi che abbiamo sollevato non trovano ancora risposta. Sono di due ordini: un malato o un cittadino non è spacchettabile - una parte mia e una di qualcun altro - visto che ogni processo non può intendersi come la sommatoria di atti professionali, anche se autonomi; occorre individuare chi ha la responsabilità unitaria del processo e risponde del malato, e chi decide in caso di conflitto. Tutto il resto resta in qualche modo un tentativo di rincorrere mirabolanti risparmi che spesso fanno solo parte di annunci elettorali.

Non vi siete mai espressi sul nuovo Codice della Fnom.
Credo che questo Codice deontologico abbia dovuto fare i conti con le situazioni contingenti e col fatto che per il medico esistono anche i Codici penale, civile, disciplinare ecc., spesso in conflitto tra loro. In quel Codice, che comunque è un'indicazione di comportamenti per l'etica fondante della professione, ci sono elementi positivi anche se poi si può essere più o meno soddisfatti da questo o quell'articolo. Non credo più agli spinaci di Braccio di ferro, a qualcosa di miracoloso, non mi aspetto che il Codice risolva subito tutti i problemi della professione medica: quelli ormai sono un fatto politico.

La piaga della corruzione in sanità è devastante. Non crede che tutte le categorie dovrebbero fare la loro parte, non solo a parole e con le solite sterili denunce?
Leggevo che i due terzi dei procedimenti di corruzione di cui si interessa la Guardia di finanza riguardano la sanità: probabilmente sono anche problemi di etica che attengono a questa categoria e forse tutti dovremmo capire, come ha affermato anche Renzi, che il messaggio destruente che lanciano queste mele marce è negativo per tutti e il danno sociale e di immagine per una categoria è veramente incommensurabile, più di un blocco contrattuale. Non si può essere indulgenti con fenomeni di violazioni deontologiche che danneggiano il rapporto tra medico e paziente e tra medico e Stato.

Forse la Fnom dovrebbe avere mani meno legate o essere più sciolta nell'intervenire. Non crede?
Non ci rendiamo conto che queste sono le regole e che gli interventi di alcune istituzioni dipendono da quelli di altre istituzioni. Se il giudice del lavoro di Pesaro dice che non conosce i provvedimenti del collega di Torino verso un imputato, la Fnom ha le mani legate aspettando la Procura. E forse dovremmo decidere anche noi quale ruolo dare agli atti intermedi della giustizia: agli avvisi di garanzia, al rinvio a giudizio, alla condanna di primo grado. Siamo tutti sicuri e concordi che dopo la condanna di terzo grado si è fuori, ma bisogna parlare di quel che c'è prima. E soprattutto quali rimedi trovare se alla fine del percorso si torna come nel gioco dell'oca al punto di partenza.

Che Congresso sarà, insomma? Che messaggio vuol dare l'Anaao?
Che occorre ripartire dal lavoro. Ora, subito. La crisi della sanità italiana non troverà un punto di approdo stabile finché in qualche modo non sarà ricollocato al posto giusto il valore del lavoro, conciliando gli aspetti organizzativi con quelli professionali, Il nostro è un mestiere ancora affascinante per moltissimi giovani e per chi già lo fa. E anche per chi si è stancato di essere una macchina meramente esecutiva degli ordini del manager di turno. Un "lavoro" che richiede un riconoscimento non solo economico, ma di logiche professionali, di partecipazione alle decisioni. Il lavoro è la chiave di volta per cambiare la sanità. Ma per cambiarla in meglio.

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