Lavoro e professione

Quella furia luddista che distrugge il medico

di Costantino Troise (segretario nazionale Anaao-Assomed)

Il 19 dicembre l'Anaao organizza a Torino un convegno dal titolo "Il mestiere delle cure. La trasformazione dei luoghi e del lavoro in sanità". La pluralità di voci che negli ultimi mesi ha animato il dibattito sul lavoro medico al tempo della crisi fa atterrare la questione medica sulla più corposa questione lavoro del medico. Passando dal lettino della psicanalisi alla corposità della vita di medico e di un lavoro "su cui decidono tutti, tranne noi", il cui valore, spezzettato a seconda del Cap e dello stato giuridico, ormai riflette sempre meno i suoi determinanti fondamentali. Trasformandosi, insieme con i luoghi in cui si svolge.
Curati e curanti oggi appaiono vittime di uno stesso destino che ne vuole limitare la presenza e cancellare l'identità, con i medici nel punto di maggiore crisi professionale e identitaria della loro storia (Morano). Crisi, più che di un ruolo, di un lavoro che, però, anche se cambiano i tempi e le economie, mantiene intatta la sua complessità e specificità, oggetto di timore, talvolta di invidia (perché altrimenti tanti non medici parlano e scrivono di quello che dovremmo fare, dettandoci tempi e agende?), di un cambiamento che facciamo fatica a capire. Assistiamo al declino della dimensione sociale, e quindi del ruolo e della identità professionale dei medici, che si riflette nella crescita del contenzioso legale, nella nuova pletora, nella crisi occupazionale, nella diaspora del sindacalismo medico e nella trasformazione dei luoghi di lavoro dove nuove professioni avanzano fino a invadere i nostri tradizionali ambiti di esercizio.

Oggi «Il lavoro del medico è diventato il vero nemico da abbattere (tagli lineari, blocco contrattuale, peggioramento delle condizioni economiche e organizzative)» (Cavicchi), in luoghi che vanno trasformandosi «lasciando i curanti (e, ancor peggio, i curati), preda dell'imperativo "adapt or die", che non lascia molto spazio per le sofferenze che siamo chiamati a vedere, diagnosticare, compatire, talvolta guarire» (Morano).
I confini sui quali si è costruita la cultura dei diritti, e la stessa forza delle organizzazioni sindacali, sono stati spazzati via dalla crisi economica, o dall'alibi che ha costituito, che ha portato alla vittoria chi offre mano d'opera a basso costo, con scarsa professionalità e soprattutto senza diritti. In questa dimensione aperta si è verificato l'attacco al lavoro non solo da parte delle amministrazioni ma anche da parte di chi da quel lavoro è escluso o pur avendolo non ha certezza di continuità. E allora oggi il lavoro di chi ce lo ha è vissuto come un lusso e perfino un privilegio, per gli altri è un non valore oggetto di una rappresentazione sociale mortificante. Il Prometeo dei decenni passati non c'è più.

In una riedizione della rivoluzione luddista, chi dovrebbe governare la Sanità pubblica appare oggi intento a distruggere il complesso sistema che la fa funzionare. L'attacco al modello ospedale-centrico è diventato attacco agli Ospedali e a chi lavora embedded (è proprio il caso di dire) con essi. Così, in quei luoghi "modernamente" trasformati in aziende, diventati il principale ostacolo al pareggio di bilancio, il bancomat da cui attingere in tutti i Def, sono stati tagliati prima i letti, sostituiti dalle più moderne (perché provviste di ruote) barelle nei Ps, e poi l'altra "appendice dell'ospedale", i medici. Non più sostituiti quando vanno in pensione o in maternità, surrogabili con altri operatori sanitari mediante chapliniane alchimie in cui la parola magica è l'intensità di cura, tutti insieme a correre su un'unica piattaforma con un solo medico e molti infermieri, per far quadrare i conti. L'ultima ricetta è la rinuncia alla guida, con direttori di struttura diventati un lusso per chi ha risparmiato altrove, e alla esperienza professionale, trascurabile dote del medico, la prima che il solerte quadratore di conti va a cercare in caso di personale necessità.

Muove questa furia luddista il bisogno di cancellare dalla lista della spesa la voce "lavoro" o di pagarla al massimo ribasso, in tempi così liquidi e frenetici, in cui per trovare soldi subito si pesca per pigrizia sempre nella stessa direzione, sistematicamente, con l'occhio strabico di chi non vuol vedere altro. Fino a compiere, con lo spregio per i medici e la voglia di farli scomparire dall'orizzonte sanitario, l'ultimo atto della rivoluzione luddista, de-costruire definitivamente quel Ssn che ancora si tiene, e tiene unito il Paese, dandogli il vantaggio competitivo della coesione sociale.
Per sfuggire da una invadenza amministrativa che sottrae tempo alla assistenza e relega il rapporto con il paziente a realtà virtuale, grazie magari anche alla telemedicina, occorre recuperare l'autorità sul nostro lavoro ponendo rimedio alla sua alienazione rispetto al suo prodotto di tutela della salute. Dovrebbe «mantenere l'autorità sul lavoro chi il lavoro lo fa, non chi campa sul lavoro altrui. Perché il sapere di chi il lavoro lo fa è superiore a tutto e chi svolge il lavoro conosce la qualità, il valore, le competenze e le esperienze che servono per svolgerlo al meglio» (Buttarelli). Invece decidono i politici, quando impongono direttori generali, direttori sanitari, capi dipartimento e primari. Decidono gli economisti, che adattano agli ospedali metodi di valutazione aziendalistici. Decide il governo che, regolarmente, sceglie di effettuare tagli lineari e indiscriminati.

La sanità, però, non è la notte in cui tutti i lavori sono uguali. Essi differiscono se declinati per gravosità, rischiosità, molteplicità e simultaneità di impegni richiesti nella stessa unità di tempo, disagio di vite spese a rincorrere i turni. E il loro valore, espresso in retribuzione, deve incorporare questi elementi e non semplicemente esprimerli come indennità accessorie, sempre insufficienti. I differenti fenotipi medici producono differenti lavori che devono avere differenti valori, anche economici, non potendo essere livellati nel denominatore comune della stessa professione. Particolare attenzione va posta, anche da parte del sindacato, alle componenti del disagio, meritevoli di una risposta come fu la continuità assistenziale per i Mmg. O di seria valorizzazione, rifiutando di continuare a vendere il proprio tempo e la propria competenza a prezzi sconosciuti a ogni operaio specializzato. Ma tutti dobbiamo riflettere sul fatto che, misurato a ore o a testa, il lavoro del medico ospedaliero rimane sempre, come dimostrano recenti indagini, desolatamente meno retribuito di altri che, anche in tempo di blocchi generalizzati, hanno il segno + nella casella stipendiale.

Prima di continuare con l'illusione del risparmio, continuando a bloccare e tagliare i salari, prego passare in una qualunque ora del giorno o della notte in un Ps di una città, di provincia o metropolitana, o comunque in un ospedale, nelle sue stanze di degenza o di ambulatorio. Guardare in faccia uno soltanto di quei medici ancora al lavoro. «Mi piacerebbe che il mio Dg, o ancor meglio il mio Assessore alla Sanità stessero accanto a me un giorno di ordinario lavoro per capire la complessità di cosa facciamo, come lo facciamo, con quali strumenti, con quale qualità», ha detto una collega.
«Un'artista non è mai povera» faceva dire Karen Blixen a Babette quando raccontò di aver speso un patrimonio nella preparazione di un pranzo. Dopo anni in cui molto è andato perso, ma è anche stato sperperato, non solo posizioni, ma anche fiducia, dignità, quel che resta ancora della arte lunga non è poco per riprendere il cammino che ci possa condurre alla ragione dell'identità e del futuro della più antica professione di cura che dà sostanza a un diritto costituzionale.