Lavoro e professione

Cure palliative pediatriche, Benini: «Servono farmaci adeguati ai bambini e più formazione per i medici»

di Rosanna Magnano

Le cure palliative pediatriche sembrerebbero una necessità assistenziale quasi ovvia. Eppure presentano ancora delle criticità: dalla gestione dei sintomi alla cronicità, fino ad arrivare alla fase della terminalità. «Perché l'inguaribilità di un bambino può avere tempi lunghi, che vanno valorizzati come spazi di vita a tutti gli effetti». A parlare è Franca Benini, chairman del recente congresso mondiale sulle Cure palliative pediatriche, organizzato da Fondazione Maruzza Lefebvre D'Ovidio Onlus e responsabile del Centro regionale veneto di terapia antalgica e cure palliative pediatriche. «La strada da percorrere è ancora lunga - sottolinea - e solo lavorando insieme potremo dare una risposta concreta al problema che, con sfumature diverse, è presente in tutte le realtà del mondo».

Dottoressa Benini, ci sono stati progressi in Italia?

Le cose procedono lentamente ma in continua progressione. Diverse strutture sono al lavoro per aprire nuovi hospice pediatrici e organizzare le reti. La risposta residenziale per ora è molto carente e i bambini inguaribili restano purtroppo in ospedale, magari nell'ultima stanza del reparto, per garantire tranquillità alla famiglia e non interferire con la vita di altri pazienti. Dobbiamo crescere nella formazione: capire bene che cosa bisogna fare e qual è l'obiettivo. L'organizzazione è complessa perché non si tratta solo di gestire la terminalità ma l'inguaribilità che poi sfocia nella terminalità, uno spazio di vita da rivalutare.

Le cure palliative domiciliari a che punto sono?

Se l'obiettivo è la qualità di vita del bambino, il bambino vuole stare a casa. L'hospice non ha senso se è solo un posto dove portare il bambino inguaribile: deve essere una struttura che dà il lancio alla gestione territoriale. Dove genitori e operatori della salute imparano come gestire a casa il paziente. La filosofia è diversa da quella degli hospice per gli adulti: la rete pediatrica deve condurre alla gestione domiciliare. Il bambino deve vivere nei suoi spazi, con una famiglia il più possibile serena e non oberata dalla burocrazia, deve recuperare i suoi legami amicali e deve tornare a scuola. Poi ci saranno dei momenti in cui nuovi bisogni richiederanno un momento di riequilibrio e sarà necessaria una risposta residenziale.

Le best practice italiane?

In Veneto la rete è attiva già da 11 anni e i decessi avvengono per oltre l'80% a casa. Abbiamo in rete ogni giorno quasi 100 bambini. È come un reparto enorme, dove abbiamo un hospice piccolo con 4 letti e altri 100 letti ognuno a casa propria. Anche altre Regioni stanno lavorando molto bene: Liguria, Toscana, Sicilia. La Basilicata ha già una rete strutturata e ha legiferato sull'hospice. Esistono best practice sulla gestione dei sintomi sia nei bambini ventilatori-dipendenti sia nei bambini con dolore. Ma anche buone pratiche sull'impatto della terminalità e del lutto. Che prendono in considerazione i riflessi che la malattia inguaribile ha su altre figure familiari, come i fratelli. Perché i bambini inguaribili occupano naturalmente spazi enormi e la famiglia va aiutata a ritrovare un equilibrio, sia prima sia dopo il lutto.

Esistono dei problemi anche sull'uso pediatrico dei farmaci. Le aziende ci stanno lavorando? Ci sono stati passi avanti?

Finora no. A noi mancano alcune modalità, le posologie. Anche perché fortunatamente i bambini che hanno bisogno di questi farmaci sono pochi e quindi diventa difficile mettere sul mercato una molecola che possa servire anche a loro. Ci sono anche tempi d'attesa ingiustificabili su certe formulazioni che andrebbero bene in ambito pediatrico ma che hanno scarso uso a livello dell'adulto. Gli strumenti per tenere sotto controllo il dolore ci sono ma potremmo lavorare meglio se fossero calibrati per bambini anche molto piccoli, dal momento che tanti pazienti inguaribili hanno meno di un anno. Prendiamo la morfina a esempio: io ho a disposizione le gocce, ma durano 4 ore. Il che significa che mamma e bambino devono interrompere continuamente il ritmo circadiano. Siamo costretti quindi a inventarci modalità di somministrazione idonee, a usare farmaci vecchi, come il metadone, ma non abbiamo le stesse chance terapeutiche degli adulti.

Non resta che il «fai da te» dei medici?

È un fai da te scientifico, certamente molto più complesso. Se avessimo una morfina a lento rilascio, la mamma potrebbe somministrarla ogni dodici ore invece di svegliare il bambino ogni quattro. Direi che si può fare di più.

Di fatto si fa poca ricerca in questo campo?

Si fa poca ricerca perché ci sono dei limiti di vendita.

Si dovrebbe trovare una soluzione in ambito pubblico?

L'interesse sta aumentando anche a livello europeo. Ma ci sono anche molti vincoli e problematiche di tipo etico nella selezione del campione, dal momento che il bambino non è in grado di decidere da solo. C'è una grossa responsabilità decisionale nell'avviare una sperimentazione clinica di questo tipo. Si tratta di bambini, se poi c'è di mezzo il dolore, decidere se dare o non dare un farmaco diventa drammatico.

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