Lavoro e professione

Quando la missione del medico è senza confini

di Rosanna Magnano

Le ferie le utilizza per andare in Africa come medico cooperante. Era il suo sogno fin da bambina. E ne parla con naturalezza ed emozione. Cristina Moscatelli, 50 anni, lavora nell'emergenza territoriale in una Asl toscana. L'ultima missione, prima di Natale scorso con Emergency, nei campi profughi di Sulaymaniyya nel Kurdistan iracheno, dove sono ospitati dai 3mila ai 10mila profughi, siriani o sfollati interni spinti alla fuga dall'avanzata dello Stato islamico. Hanno lasciato tutto, hanno bisogno di tutto. Vivono in container o tende, con l'assistenza delle varie Ong internazionali.

Quando è iniziato questo percorso? Come nasce la scelta di fare il medico missionario?

A sei anni già lo sapevo, ero molto decisa: volevo fare il medico in Africa. Poi la vita ti porta verso altre strade ma dal '98, più o meno il periodo del mio divorzio, ho ritrovato quella decisione e da allora faccio anche tre o quattro viaggi ogni anno, appena posso chiedere un'apettativa per impegni umanitari o accumulo ferie sufficienti. Ho collaborato prevalentemente con la Comunità di Sant'Egidio e con il progetto Dream, poi la prima esperienza in un campo profughi con Emergency. Ma ho dato la disponibilità anche ad altre organizzazioni, come Medici senza frontiere e Cuamm. L'obiettivo che accomuna Comunità di S. Egidio ed Emergency è quello di portare cure di eccellenza anche in aree svantaggiate.
Facendo crescere e sviluppare i sistemi sanitari locali e il personale del posto. Basta pensare ai laboratori di biologia molecolare del progetto Dream: hanno standard elevatissimi e hanno permesso di formare tecnici preparati che lavorano ovunque. Si può davvero offrire il massimo a tutti, aiutando i Governi locali e inserendosi nelle reti già esistenti. Ci sono tante difficoltà ma non bisogna scoraggiarsi mai. In questi contesti difficili ho visto cose strabilianti, che in Italia non vedo mai.

Dove è stata?

In Albania, in Kurdistan, Tanzania, Malawi, Burkina Faso, Guinea Conakry, Kenia. Ma l'Africa mi è rimasta nel cuore.

Di che cosa si occupa durante le sue missioni?

Nei campi profughi fornivamo assistenza primaria ai rifugiati, all'interno della clinica allestita da Emergency. Con il progetto Dream mi sono occupata di Hiv, di formazione on the job, della terapia e delle infezioni opportunistiche che colpiscono le persone Hiv positive, ma anche di malnutrizione e sostegno nutritivo a madri, bambini e famiglie.

È necessaria una formazione specifica?

Ho frequentato un master in medicina di emergenza e disastri, ho un diploma in malattie tropicali e allo Spallanzani di Roma ho fatto un periodo di affiancamento per imparare a gestire le problematiche relative all'Hiv, non essendo un'infettivologa. Diciamo che ho studiato e mi sono formata man mano, sul campo.

Quella del medico missionario è un'esperienza che dovrebbero o potrebbero fare tutti? Se la sentirebbe di consigliarlo ai giovani?

Assentarsi per lunghi periodi non è sempre possibile per chi ha figli o impegni familiari, ma anche restando in Italia si può uscire dalla routine degli ospedali e occuparsi delle persone meno fortunate. È un'esperienza che aiuta a essere buoni medici, un'apertura della mente e del cuore. Per ritrovare l'essenza della missione del medico, indipendentemente da eventuali motivazioni religiose. Ho molta fiducia nelle nuove generazioni. Vedo giovani medici bravissimi dal punto di vista tecnico e scientifico. Spero che coltivino anche la passione umana e la solidarietà.

I medici italiani sono in difficoltà ovunque in Italia, preoccupati del futuro e delle buste paga...

Sì è vero. Ma il nostro non può essere considerato solo un mestiere.
Dobbiamo certamente difendere il Sistema sanitario pubblico. E tenercelo stretto. Se solo si pensa a quanto lavoro e fatica organizzativa sono necessari per strutturare un vero sistema sanitario nei Paesi più svantaggiati, ci si rende conto della grande fortuna che abbiamo e che non possiamo assolutamente buttare via.