Lavoro e professione

La medicina contemporanea e il modello McDonald’s. Tra taylorismo, lotta agli sprechi e attenzione al paziente

di Marco Trabucchi (Dipartimento di Medicina dei sistemi, Università di Roma Tor Vergata)

Lo scrittore e politologo inglese Timoty Garton Ash ha recentemente scritto a proposito della scienza economica: «Il fondamentalismo del mercato ha compiuto l’errore di credere che un modello razionale potesse comprendere, prevedere e potenziare la complessità dinamica del comportamento collettivo umano». L’economia, che aspirava a essere una scienza esatta come la fisica, ha incominciato un processo di autocritica, che porterà certamente a importanti risultati per un migliore funzionamento della vita collettiva. Ha compreso che qualsiasi modello dirigistico, che pensi di condensare ogni capacità gestionale, sia esso di tipo sovietico o mercatista, non è in grado di soddisfare le esigenze della società complessa nella quale oggi viviamo.

Lo stesso processo di autocritica riguardante i modelli dominanti di comportamento è al centro di interventi riguardanti l’organizzazione sanitaria e la prassi della medicina. Siamo nel mezzo di un processo virtuoso di revisione della cultura clinica, che porterà a una ulteriore significativa avanzata delle scienze della cura, con vantaggi per la salute collettiva e dei singoli cittadini. È però necessario adottare atteggiamenti che, fin dall’inizio, siano aperti alla critica e all’accettazione delle cose nuove, perché il tempo dei rapidissimi cambiamenti nel quale stiamo vivendo ha bisogno di innovatori; livelli più elevati nella capacità di essere utili oggi alle persone fragili e sofferenti si ottengono solo se si accetta che la medicina del ’900 ha finito la propria capacità propulsiva.

Una delle grandi conquiste della medicina contemporanea è l’aver fondato il proprio operare sulla cosiddetta “evidence based medicine”, cioè su atti di cura costruiti attorno a modelli che hanno avuto una conferma sperimentale. Il tradizionale atteggiamento, adottato da molti medici, di decidere in base al “secondo me” è stato doverosamente sostituito, almeno nella parte più avanzata della prassi clinica, dalle regole imposte dalla scienza, che hanno portato alla produzione di linee guida e protocolli. Sempre più questi hanno rappresentato punti di riferimento per la prescrizione in campo diagnostico, terapeutico e riabilitativo; così il medico si sente rassicurato nel proprio agire, tanto più in un’epoca di conflittualità crescente, ma anche rispetto ai risultati di salute ottenibili.

Conseguenza di questo indubbio progresso è stata l’adozione da parte dei sistemi organizzati di cura del termine “appropriatezza” come faro-guida. Si sono quindi diffusi comportamenti che devono rispondere a precise indicazioni, con modalità prefissate, tempi determinati, costi precisi; ma il processo di standardizzazione ha superato i propri confini, invadendo ogni spazio e divenendo il fulcro di ogni atto clinico. Per esemplificare questo atteggiamento è stato coniato il temine di McDonaldizzazione della medicina, perché si sarebbe di fatto imposta una prassi simile a quella dei fast food della famosa catena americana. Sebbene siano stati definiti per razionalizzare il sistema, i quattro principi base del sistema Mc Donald’s - efficienza, calcolabilità, predicibilità e controllo - spesso inducono conseguenze negative. Su Lancet Neurology del gennaio 2016 Dorsey e Ritzer scrivono: «Senza misure per opporsi alla McDonaldizzazione, i valori più caratterizzanti la medicina, compresa la cura dell’individuo e una significativa relazione medico-paziente sono a rischio di scomparire».

Le regole di efficienza, adottate nell’ipotesi che aumentino l’efficacia delle cure e che inducano un corretto bilancio tra costi e benefici, governano in modo rigido gli atti che si svolgono attorno al cittadino ammalato, imponendo ai diversi attori comportamenti schematizzati. Questa logica si ispira al taylorismo, che nel processo produttivo costringe ad adottare procedure strettamente predeterminate. In alcuni ambienti, si è arrivati fino a riesumare, pur con qualche maquillage, il modello del toyotismo, ispirando l’organizzazione degli ospedali e degli altri luoghi di cura alla rigidità di una catena di montaggio. Hartzband e Groopman sul New England Journal of Medicine del 14 gennaio di quest’anno scrivono: «L’adeguamento integrale al Taylorismo e al processo produttivo tipico della Toyota non può essere adottato in molti aspetti vitali della medicina. Se i pazienti fossero automobili, noi saremmo tutte automobili usate di modello e di età diversa, con problemi diversi e spesso multipli, molti dei quali sono stati precedentemente riparati da vari meccanici. Inoltre, queste automobili parlerebbero linguaggi diversi ed esprimerebbero preferenze individuali rispetto a come, dove e quando desidererebbero essere aggiustate. L’assoluta verità della medicina è che i pazienti sono geneticamente, fisologicamente e culturalmente diversi. Inoltre non ci si può meravigliare che esperti diversi esprimano opinioni diverse rispetto a come meglio diagnosticare e trattare molte patologie».

Oggi fortunatamente si intravvedono i segni di un cambiamento rispetto agli eccessi del Taylorismo e della McDonaldizzazione, ma siamo ancora nel guado, perché non è stato identificato il “nuovo gradino” di un reale progresso culturale e della prassi: dalla medicina del “secondo me” (sia nel singolo atto, sia a livello di strutture più o meno complesse), prescientifica, retorica e vuota, e dalla medicina basata sulle prove di evidenza (che peraltro ha costituito un notevole progresso), si deve arrivare alla nuova fase, ancora da costruire, che invita a ipotizzare modelli che integrino e superino quelli del recente passato.

Avremmo oggi bisogno in medicina di un altro Keynes, che definì l’economia «essenzialmente una scienza morale»; in questa logica la medicina dovrebbe essere definita una scienza della complessità, la cui efficacia dipende dalla capacità di considerare clinicamente tutti gli eventi in gioco nel costruire un futuro difficilmente predeterminabile e che richiede la capacità di adattare le risposte al comparire di situazioni diverse, di varia intensità, tra loro aggregate in maniera imprevedibile.

Abbiamo la forza culturale oggi per opporci al prevalere di posizioni rigide, apparentemente razionali e che sembrano rispondere al bisogno con costi limitati (o limitabili), senza considerare l’enorme variabilità e instabilità del materiale che dovrebbero gestire (sia quello umano che quello legato alle organizzazioni sociali)? Forse è prematuro qualsiasi tentativo di dare una risposta a un interrogativo immerso nelle difficoltà del presente; la crisi economica sembra porre in posizione di vantaggio chi offre risposte apparentemente sicure, e quindi tranquillizzanti, anche sul piano dei costi, nel definire comportamenti e nel realizzare atti di cura. Però al ragionamento manca il pezzo che riguarda la persona in difficoltà; la sua realtà umana e clinica non è schematizzabile all’interno di gabbie di pensiero precostituite.

Le variabili che costituiscono la vita di una persona ammalata, spesso affetta da una patologia cronica di lunga durata, non rientrano infatti in schemi uguali tra loro, e quindi riproducibili all’interno di un algoritmo che parte dal sintomo e arriva all’organizzazione dell’ospedale, della casa di riposo, di un sistema territoriale di assistenza. Non si tratta di adottare criteri di “umanizzazione” della medicina, come fosse un’integrazione benevola alle procedure prefissate, ma di prendere atto che la personalizzazione in termini biologici, clinici, psicosociali del bisogno deve essere collocata strutturalmente all’interno del meccanismo decisionale.

Come mettere in atto questa prassi, che tenda al massimo della razionalizzazione dei comportamenti, in base alle più recenti conquiste dalla scienza medica e dell’organizzazione, ma che allo stesso tempo sia in grado di applicare i nuovi modelli alla variabilità della condizione clinica? Attorno a questa problematica si sviluppa il dibattito di oggi, nell’attesa di arrivare a una sintesi. È però necessario adottare atteggiamenti senza preconcetti, aperti; nella ricerca di nuove soluzioni nessuno può pretendere di avere le risposte già pronte; d’altra parte, più è alto il livello scientifico di chi elabora proposte, più questi è aperto alla discussione. Preoccupano coloro che pensano di imporre per ragioni commerciali il loro modello a servizi sanitari che hanno invece l’esigenza di strutturarsi secondo modalità elastiche di comprensione della condizione di sofferenza dei cittadini presi in carico. Si pensi, ad esempio, agli anziani, che rappresentano una fascia sempre più ampia di fruitori dei servizi e che, per definizione, presentano bisogni ampiamente differenziati.

Organizzare l’assistenza adottando le rivisitazioni recenti del toyotismo significa accettare di mettere al centro la macchina organizzativa e non il bisogno reale (con buona pace della centralità del cittadino!). Talvolta purtroppo chi compie queste scelte nemmeno si rende conto di adottare sistemi profondamente inefficienti, perché il risultato di salute non viene nemmeno preso in considerazione. Pur ammettendo che talvolta nell’anziano è difficile misurare gli outcome clinici, è doveroso mettere a punto modalità per valutare nel tempo come si modifica la salute (la quale a sua volta è conseguenza di vari fattori); non è infatti una variabile indipendente, come talvolta sembrano implicitamente affermare alcune posizioni culturali. D’altra parte, l’esempio del Piano nazionale Esiti è significativo, perché è stato alla base di importanti risultati di salute (la riduzione di patologie iatrogene, il controllo dei tempi di intervento in alcune importanti patologie ecc.). Nonostante mille difficoltà non vi sono infatti alternative alla ricerca continua e determinata per praticare la medicina nel nostro tempo!

L’idea originaria di Taylor di identificare il modo migliore per svolgere un determinato lavoro in termini di tempo e di efficienza resta un’indicazione valida, per evitare pressapochismi e sprechi; deve però tenere in conto che il lavoro in medicina non è paragonabile a quello con i bulloni, perché il cuore e la mente, il soma e la psiche dell’oggetto del lavoro variano continuamente. Il punto critico è avere coscienza di questa differenza, sia a livello programmatorio che dell’esecuzione del singolo atto di cura, senza cancellare i vantaggi che derivano dall’adottare procedure scientificamente validate in tempi e modi controllati.

Marco Trabucchi

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