Lavoro e professione

Il talento di Fabrizio, la bandiera del Sole 24 Ore

di Roberto Napoletano

«Siete stati eccezionali, avete fatto tutto il possibile» dice la moglie Valentina. «Non abbastanza» risponde Marco Ranieri, il primario della rianimazione del Policlinico di Roma, negli occhi ti accorgi che l'uomo viene prima del medico. Ha appena detto che per Fabrizio è morte cerebrale. La madre mi guarda, lacrime e parole vanno insieme: «Hanno inventato tante cose, perché non si può dare la nostra vita in cambio della sua?» Sono lì muto, impietrito, non riesco più a piangere: se ne è andato Fabrizio Forquet, il più bravo di noi, è sparito un pezzo del Sole, ma prima ancora questa morte, terribilmente ingiusta, sottrae un padre a quattro bambini (Ferdinando, Miosa, Marta, Giuliana) e a me un amico vero, un fratello minore: la forza della sua testa e il vigore dei suoi comportamenti, l'intelligenza viva e il sorriso amaro dei momenti difficili, la gioia di una litigata per fare le cose migliori.
In quel baleno di emozioni mi rendo conto che per me nulla sarà più come prima e, soprattutto, avverto il peso di non avere mantenuto la promessa fatta a Valentina proprio qui, in queste stanze del Policlinico, in un lunedì mattina di due settimane fa con lui ricoverato d'urgenza. «Vero Roberto che Fabrizio torna? Vero che la sua testa tornerà ad essere quella di prima? Me lo prometti? Sì, me lo prometti, tanto lo so che ti fidi solo di lui, Fabrizio torna perché se no con chi lo fai il giornale?». Non è tornato Valentina, non ce l'ha fatta lui, non ce l'abbiamo fatta noi, ma ti prometto che continueremo a fare il nostro giornale perché il Sole è una grande famiglia, una palestra di talenti e di umanità, e ora abbiamo un motivo in più per dimostrarlo ogni giorno. E, poi, perdonami, chissà perché vedo Fabrizio che ci guarda da lassù, ho davanti agli occhi il suo faccione che si avvampa di rosso, e sento che mi fa: “Stai calmo, ora metto a posto tutto io, c'è Forquet che problema c'è”. Non è vero, ma mi piace pensarlo.
Mi scorre davanti agli occhi il film di una vita, sempre insieme tra Milano e Roma, e la prima cosa che mi viene in mente è la chiamata di venti anni fa di Pasquale Nonno, per me molto più di un direttore, che mi dice al telefono: «Guarda sta arrivando a Milano forquettino, lo manda la Luiss dove ha fatto la scuola di giornalismo, il padre Piero mi ha insegnato senza successo a giocare a bridge, ma di giornalismo ne capisco e ti assicuro che Fabrizio è bravo, ha talento». Aveva ragione Pasquale, come sempre, anche se questa volta aveva sbagliato per difetto: Fabrizio era bravissimo.
Da praticante era caporedattore, dava ordini a tutti, anche se qualcuno mi dice che i segnali si erano già visti alla scuola di giornalismo, qui dava i compiti a tutti, ci inventammo la giornata politica e molto altro, ma mi piaceva soprattutto perché vedevo che cominciava ad amare il Sole esattamente come lo amo io, con la stessa passione per quel modo unico, fattuale, di fare giornalismo, la capacità di dire cose dure in modo pacato, con il rigore dei numeri e la forza del confronto comparativo-competitivo. «Fabrizio, passami questo pezzo, se non trovi almeno quattro errori hai fatto finta di guardarlo» e ricordo la sua soddisfazione quando ti faceva quelle segnalazioni a margine mai inappropriate. Ogni volta che partiva per una vacanza mi mandava un sms: «Non so come dirtelo, ma ho promesso a Valentina un mese in America...».
Quando mi è stato dato l’onore di tornare al Sole da direttore, ormai più di cinque anni fa, dopo la lunga e felice esperienza al Messaggero, avevo in mente un'idea editoriale ben precisa e, cioè, che non c'era nulla di più nuovo che tornare all'antico. Rifacemmo il Sole in due giorni e questo fu possibile perché c'è una squadra dirigente di primissimo livello e una redazione straordinaria che amano questo giornale come me e Fabrizio, ma il rapporto molto speciale che ho sempre avuto con lui mi ha aiutato in modo decisivo. Ogni tanto litigavamo, succede tra persone che si stimano e si vogliono bene. Una volta mi arrabbiai molto e gli tenni il muso per due settimane. Ogni mattina arrivava lo stesso sms «Se non mi parli non capisco, rispondi c. al telefono». Quando tornammo ad abbracciarci non ci staccavamo più.
Ricordo la mattina di FATE PRESTO, l'Italia era sull'orlo del baratro, e ricordo la domanda: «Sei sicuro? Sì, sono sicuro». «E allora io lo sono più di te». Ricordo le sue analisi sempre lucide, anticipatrici, dove economia e politica, Italia e Europa, stanno insieme in modo naturale e sono raccontate con i fatti, senza mai cedere alla retorica, la mano ferma nella guida della redazione romana di questo giornale e l'entusiasmo con il quale sposò subito l'idea di Rating 24, siamo riusciti a farne una bandiera del nostro modo di fare informazione, l'amore per Italyeurope24, la scuola di giornalismo, il master in “management politico”, il ruolo sempre più centrale di Roma dentro il sistema multimediale del Sole. Fabrizio non si fermava mai e non diceva mai no, qualche volta protestava a voce alta e qui veniva fuori quella napoletanità e quella esuberanza dietro le quali si celavano un tratto raro di civiltà e una molteplicità di affetti e di interessi.
Di questo calvario durato due settimane non dimenticherò mai quel grumo di fili dietro la testa di Fabrizio e quella macchina maledetta che misura la febbre e non vuole mai scendere da 38 e 5 a causa di una polmonite che complica tutto dal primo momento. Mercoledì notte il professor Ranieri era stato esplicito: o entro 12 ore scende sotto i 37 o non ce la fa perché se aumentiamo il cortisone mettiamo a rischio il cervello. Poco dopo la mezzanotte guardo la macchina e mi sembra tremendamente assurdo che in quelle poche linee di febbre possa essere racchiusa la vita di un uomo così giovane e così forte, incrocio lo sguardo di Chiara che con il fratello Aldo non si è mai staccata da quel letto e ne percepisco la profondità del dolore. Lascio il Policlinico con la febbre a 37 e 2 e la speranza nel cuore. La crisi di mercoledì è superata, quella successiva di venerdì notte no, odio quella macchina maledetta. Sento che la morte non ha l'ultima parola, ma so che sa essere terribilmente ingiusta. So che lo è stata con Fabrizio e non so spiegarmi le ragioni di questo accanimento. Grazie, amico mio, di tutto.


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