Lavoro e professione

Essere responsabili è rivoluzionario? Partiamo dalla legalità

di Luca De Fiore (presidente Associazione Alessandro Liberati)

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24 Esclusivo per Sanità24

È ora di essere più concreti. Dopo mesi di iniziative di sensibilizzazione e di corsi di formazione, medici, farmacisti, infermieri dirigenti sanitari chiedono indicazioni più precise e questo rappresenta una nuova importante sfida anche per il progetto “Illuminiamo la salute” che da diversi mesi, per iniziativa della senatrice Nerina Dirindin e di alcuni entusiasti collaboratori, lavora capillarmente alla promozione della legalità nella sanità del nostro paese. Ma come fare per “accendere la luce” negli ospedali, nei distretti, negli ambulatori? Primo, affrontando seriamente il conflitto di interessi. Nonostante se ne parli da anni, la questione dell'attrito tra interessi privati e interessi dei cittadini non è stata minimamente risolta. Anzi, negli ultimi anni la situazione si è aggravata perché agli interessi privati (il medico che prescrive un farmaco perché riceve un regalo da un’industria o che prescrive un esame in un laboratorio privato di cui è azionista) si stanno aggiungendo i problemi legati agli interessi delle istituzioni (basti pensare al caso clamoroso dei Centers for disease control and prevention statunitensi che ricevono finanziamenti da industrie i cui prodotti sono raccomandati nelle linee-guida sulle strategie vaccinali antinfluenzali).
Se la partnership pubblico-privato non solo è tollerata ma addirittura istituzionalmente incentivata, dobbiamo aspettarci due scenari:
1. il conflitto di interessi diventa endemico, perché i singoli professionisti si sentono autorizzati a perseguire interessi privati dall'esempio delle istituzioni a cui appartengono;
2. il conflitto di interessi non esiste più, perché non si dà più alcuna conflittualità.
In entrambi i casi la nuova cornice della ricerca e dell'assistenza sanitaria sarebbe quella della convergenza di interessi, della confluenza tra interessi opposti auspicata da gran parte della medicina accademica, soprattutto statunitense.

La trasformazione richiede azioni reali e non semplici pensieri. Perché ciò non accada è indispensabile che chi è convinto che la ricerca e la clinica debbano perseguire unicamente l’interesse pubblico non si limiti a criticare l'esistente ma denunci nei modi più opportuni le irritualità e le illegalità di cui è testimone. «La trasformazione, o più precisamente la rivoluzione - scrive Maurizio Ferraris nel libro “Emergenza” - è possibile e doverosa, ma richiede azioni reali, e non semplici pensieri. Il realismo è denuncia delle rivoluzioni fatte soltanto nel pensiero, delle Armchairs Revolutions, delle rivoluzioni in poltrona e in panciolle». L’affermazione di Ferraris è in linea con la convinzione di chi, molto pragmaticamente, vede nel whistleblowing l’arma più efficace per trasformare un sistema nel quale la corruzione è presente a ogni livello. Di nuovo, due sono i passi obbligati:
1. la figura di chi segnala l’illegalità deve essere riabilitata, diventando il promotore di un cambiamento a vantaggio di tutte le persone che lavorano nell'ambiente vittima della corruzione;
2. abitudini che sembrano “normali” devono invece essere riconsiderate, valutando i danni che “normalmente” arrecano al sistema sanitario: basti pensare alla cosiddetta honorary authorship (l’aggiunta di uno o più nomi ad un articolo scientifico, di persone che non hanno contribuito al lavoro), abitudine molto italiana che altera i ranking professionali, influenzando le carriere di clinici e ricercatori. Peccati veniali che non sono tali perché alterano l'ecosistema della legalità.

Una riflessione radicale - per usare un aggettivo a lui caro - è quella di Eugenio Borgna nel libro “Responsabilità e speranza”. «La responsabilità è considerata come la possibilità di prevedere gli effetti delle nostre azioni, e di modificarle, di correggerle, in base a tale previsione». Inoltre - aggiunge Borgna - «non esiste una responsabilità collettiva ma solo una responsabilità personale che consiste nel dovere rispondere delle azioni, e delle omissioni, da noi realizzate sulla base delle nostre cognizioni e delle nostre decisioni». Le pagine del grande psichiatra sono preziose perché aiutano a mettere a fuoco dei punti chiave: la responsabilità è una scelta libera, legata sia alle azioni compiute sia alle parole pronunciate o non dette, legata anche a quanto scriviamo. La responsabilità, infine, si basa sulla conoscenza e questo dovrebbe farci riflettere sull’importanza del rendere disponibili nelle aziende sanitarie o ospedaliere dei documenti di riferimento, dei “modelli” a cui rifarsi nel momento di dover stilare un accordo di sponsorizzazione o di collaborazione con una rivista, una casa editrice o un qualsiasi altro collaboratore esterno alla struttura. Si tratta di un'attenzione dovuta dalle istituzioni ai propri dipendenti, anche perché se è vero che la responsabilità è personale, è ancora più sicuro che per essere agita è spesso indispensabile creare un contesto favorente. A questo proposito, è da poco uscito uno studio di ProPublica che ha messo a confronto gli ospedali statunitensi, valutando il grado di “compromissione” dei medici che lavorano nelle strutture private, in quelle no-profit, in quelle pubbliche. Sono emerse differenze non banali, a conferma che nelle realtà più attente al conservare una distanza di sicurezza tra industrie e assistenza al paziente anche i singoli medici si adeguano e rinunciano a percepire denaro. Anche la geografia conta, a seconda di come i diversi Stati regolano i rapporti tra case farmaceutiche e centri di assistenza.

Quod non est in actis non est in mundo. Legare la responsabilità alla conoscenza ci riporta alle pagine di Ferraris che ricorre a un detto latino per ricordare che “i documenti fissano le azioni, assumono un ruolo prescrittivo, e coordinano le azioni”. Occorre però che i documenti siano conosciuti, condivisi, fatti propri da chi deve liberamente decidere se essere o non essere responsabile, decidendo di trasformare la propria disubbidienza in esemplarità (sono sempre parole di Ferraris) denunciando corruzione e illegalità di cui è testimone. Per tornare all’esempio prima citato - la honorary authorship - esistono numerosi e convergenti documenti che indicano precisamente ciò che può essere fatto, ciò che deve essere fatto e ciò che non può essere fatto nella comunicazione scientifica. Lo International Committee of Medical Journal Editors, come anche tutte le altre associazioni che accolgono chi lavora nel campo della comunicazione della scienza, si esprime con chiarezza a proposito della firma degli articoli scientifici, dei i conflitti di interesse, della pubblicazione duplicata di contenuti uguali o simili.
Dalla documentalità - in altre parole, dalla esistenza e dalla disponibilità di documenti scritti - «deriva qualcosa di molto più importante del sapere. Deriva l’agire morale, ossia ciò che normalmente si intende nei termini della responsabilità, del rispondere di qualcosa come agenti intenzionali».
Per questo, la via per la tutela della legalità nel sistema sanitario difficilmente può passare dalla sorveglianza. Più utile sarebbe se la strada fosse quella della informazione, della ricostruzione di una base di conoscenza condivisa tra gli operatori, tra i medici, gli infermieri, i dirigenti sanitari, i farmacisti. Con la consapevolezza che i documenti “teoricamente prescrittivi” che dovrebbero orientare i comportamenti sono stati prodotti da “noi”, riconoscendoci realmente parte di una “comunità scientifica”.

Bibliografia
Cappola AR, FitzGerald GA. Confluence, Not Conflict of Interest: Name Change Necessary. JAMA 2015;314(17):1791-2.
Ferraris M. Emergenza. Torino: Einaudi, 2016.
Borgna E. Responsabilità e speranza. Torino: Einaudi, 2016.
Ornstein C, Jones RC. Doctors At Southern Hospitals Take The Most Payments From Drug, Device Companies. NPR 2016; 29 giugno.


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