Lavoro e professione

Eutanasia, Moroni (Fcp): «Non c'è libertà nella sofferenza. Garantire l’accesso alle cure palliative»

di Luca Moroni (presidente Federazione Cure Palliative)

Ancora una volta i temi del fine vita conquistano i titoli dei giornali per la risonanza di casi limite che polarizzano gli opinionisti su posizioni estreme. La vicenda di un ragazzo di 17 anni che ottiene l'accesso all'eutanasia in uno dei pochi paesi in cui questa pratica è legale viene affrontata in termini dogmatici e intransigenti dai fautori della libertà assoluta di autodeterminazione cui si contrappongono i sostenitori della indisponibilità della vita. In questo modo, concentrati nella valutazione di un epilogo drammatico, ancora una volta si rischia di perdere di vista il percorso di malattia e di sofferenza che conduce alla scelta di morte per eutanasia.

Sappiamo pochissimo del ragazzo belga di cui si parla in questi giorni ma conosciamo invece bene la storia di molti dei 250.000 malati che in Italia, ogni anno, affrontano una malattia inguaribile e progressiva cercando risposte ai bisogni clinici e psicologici che inevitabilmente la patologia porta con se. Si tratta purtroppo spesso di storie di solitudine e di abbandono, di sofferenza fisica e morale dovuta alla mancanza di quelle cure palliative di cui le persone malate e i loro famigliari hanno bisogno per vivere con dignità il tempo che resta a disposizione.

Le cure palliative sono costituite dall'insieme degli interventi terapeutici e assistenziali finalizzati alla cura di persone la cui malattia di base non può essere guarita, sono riconosciute dall'Organizzazione Mondiale della Sanità come un diritto umano fondamentale e sono in Italia un diritto sancito dalla Legge 38 approvata dal Parlamento all'unanimità il 15 marzo de 2010.

Se a essere intervistati fossero i medici, gli infermieri, gli psicologi, i fisioterapisti o i volontari che ogni giorno assistono con competenza a domicilio, negli hospice e in ospedale i malati inguaribili, potrebbero raccontare di come sia possibile assicurare contesti di cura nei quali le persone possono sentirsi ancora vive, nonostante la malattia e le limitazioni che questa comporta. Le equipe sono sempre più capaci di controllare il dolore fisico e gli altri sintomi, liberando così la possibilità di interpretare il tempo della malattia come un periodo che merita di essere vissuto.

Per le situazioni più difficili, che riguardano un numero limitato di malati con sofferenze altrimenti incontrollabili, è possibile ricorrere alla la sedazione palliativa: una procedura terapeutica che non ha niente a che fare con le pratiche eutanasiche, ma che consente attraverso farmaci sedativi di ottenere una perdita dello stato di vigilanza di variabile profondità. Si tratta di una procedura che non solo è ormai considerata unanimemente lecita ma è addirittura doverosa, in certe condizioni, sotto il profilo clinico, etico, deontologico e giuridico a patto che vengano seguite in modo rigoroso linee guida e raccomandazioni pubblicate da Società Scientifiche nazionali ed internazionali.

A più di sei anni dalla legge 38 però le cure palliative sono accessibili solo a una minoranza dei malati inguaribili che ne avrebbero bisogno. Ogni anno la Relazione al Parlamento ci racconta di un'evoluzione lenta e circoscritta solo ad alcune regioni. Ancora oggi ottengono cure palliative solo il 30% dei malati di tumore a fronte del 65% posto come obiettivo dal DM 43 del 2007. Non può accedere alle cure la quasi totalità dei malati con patologie evolutive non oncologiche e restano esclusi i minorenni, come il ragazzo belga. Per i bambini in Italia ci sono rari servizi palliativi pediatrici, pochissimi i medici competenti che possono contare su limitati farmaci specifici.

Una normativa nazionale eccellente, presa a modello dalla comunità europea definisce come, con risorse economiche limitate, si possono e si devono implementare modelli integrati e flessibili capaci di rispondere ai differenti bisogni di cura dei malati inguaribili in fase avanzata, riducendo oltretutto lo spreco di terapie e ricoveri inutili. Si tratta di un obiettivo, se lo si volesse, oggi raggiungibile in pochi anni grazie al contributo di uno straordinario mondo professionale e a una cittadinanza attiva diffusa e coordinata.

In un paese serio, nel frattempo, astratte discussioni etico-filosofiche sull'eutanasia dovrebbero per lo meno essere subordinate alla realizzazione di quelle condizioni minime di cura, senza le quali nessuna scelta è veramente libera. In una situazione di forte carenza di servizi di cure palliative, una maggiore moderazione, discrezione, rispetto per la complessità delle storie personali, potrebbe essere un primo passo verso quella cultura della responsabilità, della solidarietà e dalla dignità che sole rendono gli uomini e le donne protagonisti della loro vita anche nella malattia.


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