Lavoro e professione

Una «exit strategy» per i conflitti di interesse

di Luca De Fiore (associazione Alessandro Liberati, Network italiano Cochrane)

Quasi tutti sicuri che esistano, ma riguardano gli altri. Se ne parla da tempo, di conflitti di interessi (CoI), anche tra gli epidemiologi italiani: diverse sessioni centrate su questo tema sono state organizzate ai congressi nazionali dell'Associazione italiana di epidemiologia (Aie) degli ultimi anni. Lo ha ricordato Eva Pagano aprendo il simposio sui CoI al congresso svolto a Mantova il 26 ottobre 2017 e curato dall'Associazione Alessandro Liberati Network italiano Cochrane. Sono questioni ancora più attuali di un tempo soprattutto per la riduzione dei finanziamenti indipendenti alla ricerca.

Ricevere denaro da industrie è una condizione di rischio? Possiamo rispondere di sì perché ne abbiamo le prove: i medici in contatto con gli informatori scientifici del farmaco, per esempio, sono più inclini a inserire i farmaci delle aziende più generose nei formulari ospedalieri (Chren & Landefeld, JAMA 1994)e prescrivono meno generici (DeJong et al, JAMA Int Med 2016). Conta la quantità di denaro donato? Gli studi pubblicati dicono che anche piccoli regali o inviti a cena trasformano il medico in un alleato (Sah & Fugh-Berman, J Med Ethics 2013), ma è indubbio che più ricco è il dono e maggiore sarà la riconoscenza (DeJong et al, JAMA Int Med 2016). I codici etici possono proteggere i medici e il sistema? Secondo Rosa Gini, dell'Agenzia sanitaria toscana (Ast), sì: il codice ENCePP guida i partecipanti al progetto collaborativo tra Unione europea e Federazione europea delle aziende farmaceutiche. Illustrato nei dettagli dalla ricercatrice della Ast, vincola alla trasparenza e al rispetto delle regole che la comunità scientifica si è data in materia di sperimentazione. Restano però alcune aree grigie, che riguardano la definizione e il concetto di indipendenza e le prerogative degli agenti finanziatori nelle fasi che precedono la submission dello studio per la pubblicazione.

Essere in una condizione di conflitto d'interessi è di fatto un'ammissione di colpevolezza? Certamente no, ha sottolineato Giuseppe Traversa: il conflitto di interessi, infatti, riguarda solo le persone oneste perché altrimenti si dovrebbe direttamente parlare di illegalità, frode o corruzione. La rilevanza della relazione conta, secondo Traversa: essere in un board di consulenti o nello speaker bureau di un'azienda è cosa diversa dall'accettare il dono di un libro o l'invito a un corso. C'è poi la macroscopica evidenza della necessità di governare le inevitabili sperimentazioni svolte per finalità di approvazione regolatoria: finanziate dall'industria, occorre trovare i migliori percorsi per evitare distorsioni o i bias di pubblicazione che possono arrivare fino alla omissione di dati.

Insomma, per Traversa far finta che i conflitti di interesse non esistano è un lusso che la sanità non può permettersi: «dobbiamo occuparcene per davvero, e cioè accettare la sfida che ci viene dai CoI, il che implica: riconoscerli, evitarli quando possibile, adottare strategie di riduzione delle potenziali distorsioni quando non possono essere evitati».

Occuparsene vuol dire anche porsi il problema di tutte quelle situazioni in cui il nodo è l'assenza di interessi e non la loro presenza: ricerca sui farmaci generici, su quelli a brevetto scaduto, sulle terapie per popolazioni talmente poco numerose da non rappresentare un target vantaggioso per l'industria. Casi in cui l'investimento pubblico è indispensabile, come lo è quando i disegni di studio lasciano attendere risultati a tale distanza di tempo da pregiudicare il rientro delle spese. «Non tutti i CoI possono essere prevenuti, in alcuni casi devono essere gestiti. Oltre agli esempi citati prima a proposito dei farmaci, il caso delle commissioni che decidono i finanziamenti della ricerca indipendente – si veda il caso dell'AIFA nel periodo 2005-2009 – dimostra che si può documentare l'effetto dei CoI e nello stesso tempo adottare strategie di riduzione dell'effetto distorsivo».

Una possibile via d'uscita è legare il contributo di un'industria a una specifica prestazione: una consulenza finalizzata a migliorare la metodologia di uno studio o all'analisi dei dati, una lettura a un convegno, anche un corso di aggiornamento per il personale aziendale. Paradossalmente il rischio maggiore di opacità si corre quando il contributo è formalmente “non condizionante”, “unrestricted to a specific purpose”: sarebbe molto meglio sapere a quale scopo sono elargiti i finanziamenti delle aziende.

Serve che il medico non percepisca la riflessione su una questione così importante come un'invasione della propria privacy: per questo, «dobbiamo smettere di considerare il CoI come un problema etico», sostiene Rodolfo Saracci, past president della International agency for the study of cancer. «Perché a livello individuale ognuno risponde alla propria coscienza. Il contrasto ai CoI deve essere dettato dalla vigilanza sulla cattiva ricerca: gli interessi particolari nuocciono alla qualità degli studi e questo sì, che è un lusso che non possiamo permetterci».


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