Lavoro e professione

Coronavirus: così il calcolo contributivo penalizza le pensioni di reversibilità

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

La Riforma Dini del 1995, che è, a tutt'oggi, ancora considerata tra le più importanti riforme del sistema pensionistico del nostro Paese, se non la più importante per i suoi contenuti altamente innovativi, ha introdotto il sistema di calcolo contributivo, ovvero il calcolo dell'importo della pensione sulla base della somma di tutti i contributi versati nella vita lavorativa ( montante ).

Il calcolo contributivo dovrebbe quindi rappresentare, da un canto la garanzia di sostenibilità del sistema pensionistico nel problematico futuro della previdenza, connotato da squilibri demografici e tassi ridotti di sviluppo economico, e dall'altro la garanzia per i futuri pensionati e i loro familiari di poter ottenere un trattamento correlato ai redditi percepiti negli anni di lavoro.

Tali principi decadono bruscamente nel caso di premorienza dell'interessato in quanto la reversibilità, cioè la spettanza agli eredi (il 60 % del trattamento che sarebbe spettato al titolare ) essendo proporzionale ai versamenti diventa assolutamente modesta. Ne è un esempio la situazione delle vittime più giovani del coronavirus. Anche se sono solamente il 5 per cento del numero complessivo dei deceduti ( circa 1.500 ) i loro familiari, moglie e figli a carico, otterranno una pensione di reversibilità da fame.

La loro pensione non potrà neanche essere integrata con l'applicazione della " anzianità convenzionale ", prevista dalla legge n. 222 del 1984, con cui la pensione di inabilità, reversibile ai superstiti, è pari alla differenza tra l'assegno di invalidità e quello che sarebbe spettato al lavoratore sulla base della retribuzione pensionabile, considerata per il calcolo dell'assegno medesimo, con una anzianità contributiva aumentata di un periodo pari a quello compreso tra la data di decorrenza della pensione di inabilità e la data di compimento dell'età pensionabile, sino ad un massimo d'anzianità di 40 anni. Per ottenere questo specifico trattamento l'interessato avrebbe dovuto fare domanda di inabilità all'Inps, condizione improponibile a chi è stato travolto dalla malattia. Sarebbe cosa giusta e necessaria poter intervenire ad estendere la condizione di favore a tutti coloro che sono deceduti per Covid.

Un altro problema che inciderà fortemente sui trattamenti pensionistici futuri è il Pil: il prodotto interno lordo. Tra i principali fattori, che incidono sul sistema di calcolo contributivo c'è infatti la crescita della ricchezza del Paese. La pensione del lavoratore è infatti data dalla sommatoria dei contributi versati nel corso della vita lavorativa capitalizzati alla media quinquennale del Pil.

Questa condizione è favorevole qualora il Pil cresce nel tempo. Ma se, come nel 2014, per la prima volta dall'entrata in vigore del sistema contributivo, l'ISTAT ebbe a comunicare un tasso di capitalizzazione negativo, il Governo fu costretto ad emanare un decreto ( n.65 /2025 ), congelando la svalutazione e stabilendo che in tali circostanze debba essere applicato un tasso di rivalutazione comunque pari a 1, cioè azzerando la perdita. Sottolineando, tuttavia, che si sarebbe proceduto con " salvo il recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive."

Con la prospettiva , causata dall'enorme danno, sia umano ma anche economico prodotto dal Coronavirus, che da eminenti organismi finanziari, come Goldman Sachs, è stato previsto determinare, addirittura, un calo, per il 2020, dell'11,6 % del Pil, la valutazione futura dei trattamenti pensionistici appare assolutamente negativa.

E accanto ad un'evidente stasi di incremento del capitale contributivo legato alle difficoltà salariali, si aggiungerà anche , un blocco della sua capitalizzazione che non solo interesserà l'anno corrente, ma annullerà anche gli eventuali incrementi futuri, dovendo il sistema previdenziale recuperare l'azzeramento della perdita prevista oggi con gli auspicati aumenti del Pil degli anni a venire


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