Medicina e ricerca

La salute alle radici del gusto

di Donatella Lippi (Storia della Medicina - Università di Firenze)

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24 Esclusivo per Sanità24

Il paesaggio dell’Appennino emiliano e tosco-romagnolo conosce un’edilizia rurale, dalle lontane origini medievali, caratterizzata, tra l’altro, dalla diffusione delle torri rondonaie, utilizzate per far nidificare i rondoni. Anche nelle abitazioni rurali, nelle pareti esterne dei piani alti, venivano predisposti dei fori circolari, che immettevano, tramite tubi in terracotta, nel sottotetto: i fori erano di dimensioni tali da lasciar entrare i rondoni, ostacolando l’ingresso dei predatori, e riproducevano le condizioni in cui il rondone nidifica in natura. Il vano di nidificazione era accessibile dall’interno, tramite uno sportellino rimuovibile, attraverso cui, a fine luglio, quando il nidiaceo aveva raggiunto le dimensioni dell’adulto, era possibile catturarlo, prima dell’involo, arricchendo una mensa, in cui, altrimenti, si susseguivano prevalentemente prodotti derivati dalle castagne, dal granturco, da cereali inferiori, che portavano con sé ipoalimentazione, pellagra, ergotismo. Insieme ai rondoni, allora, i prodotti della caccia.

Nel Basso Medioevo, infatti, la sempre maggiore messa a coltura del territorio, per fronteggiare le necessità alimentari di una popolazione in crescita, aveva provocato il restringersi delle aree incolte boschive, in cui veniva praticato l’allevamento dei porci silvestres: le attività silvo-pastorali, risorsa fondamentale nei secoli precedenti, vennero ridotte e gli spazi superstiti, gestiti ora dalle classi sociali più forti, costrinsero i contadini ad allevare all'interno del podere i maiali, che richiedevano, a loro volta, disponibilità di cibo e diventarono, così, segno di benessere e ricchezza.
Carne, grasso e burro, demonizzati dalla continenza e dalla ascesi cristiana, erano stati introdotti dai popoli nordici, provocando la scissione tra un’Europa della carne e un’Europa del grano, della vite, dell’olivo, in cui il calendario liturgico scandiva le interdizioni alimentari, condizionando anche il rapporto col cibo.
Il cibo, inteso come ponte e come conversione della Natura in Cultura, attraverso l’uso e la sottomissione dei materiali grezzi trasformati in piatto finito, rivela, infatti, le motivazioni fondanti di miti, simbologie e riti, che oscillano dal piano del gusto a quello della salute, dalla prospettiva religiosa a quella economica e sociale.
Cibo come identità religiosa, filosofica, etnica, ma anche identità individuale, strumento di conforto e di appartenenza a un gruppo, familiare o sociale.
Cibo come linguaggio ed elemento rivelatore: l'uomo è ciò che mangia, ma l'uomo mangia ciò che è, vale a dire alimenti che sono il frutto della sua cultura, della sua tradizione, del suo passato e non solo scelte determinate dalla semplice fisiologia della digestione, che influisce sulla definizione di ciò che “è buono” da mangiare.

Gusti e disgusti. L’uomo è un onnivoro particolare, in quanto evita alcune sostanze, o perché inadatte a essere mangiate dalla nostra specie, o per immotivata coerenza, giustificazioni pratiche o per una sorta di vaccinazione magica, in base alla quale una rinunzia attenuata e provvisoria a certi beni ne garantisce il loro godimento futuro.
Eppure, come scrive Marvin Harris, riusciamo a ingerire perfino le «secrezioni irrancidite delle ghiandole mammarie, i miceti, le rocce»: formaggio, funghi, sale.
Regole di esclusione, come nel caso del pesce e della carne in alcuni Paesi cattolici, o della carne e dei latticini nell'ortodossia ebraica, e regole di inclusione, che impongono l'uso di determinati alimenti ai fini della costruzione di un piatto: in questa grammatica culinaria, inclusione ed esclusione costituiscono la risposta a esigenze del gusto, intendendo il termine nella sua accezione più vasta, per designare «le scelte alimentari insieme agli stati affettivi e all’edonico (piacere/dispiacere) loro associati».
Cibo e autorappresentazione: già in passato, i costumi alimentari sottolineavano le differenze e segnavano l’identità. Per i Greci, che mangiavano polenta d'orzo, la polenta di farro era elemento distintivo delle genti italiche, così come oggi i Francesi sono frog eaters, gli Inglesi golosi di roast beef, gli Italiani di macaroni e i Tedeschi di crauti. In questo processo di identificazione, in cui la selezione degli alimenti, nel rapporto collettivo gusto/disgusto, ha giocato un ruolo fondamentale, è la carne a stimolare le reazioni più vistose: nel consumo della carne entrano in gioco fattori economici fortissimi, veicolati e nascosti dalla percezione della cultura e del gusto.
Ebrei e Musulmani non mangiano il maiale perché è animale sudicio e coprofago o per l’intuizione del rischio della trichinosi? Veramente selvaggina e bestie da soma sono proibite perché la loro carne è troppo stopposa, i crostacei perché portatori della febbre tifoidea e il sangue perché veicola i microbi?
O ci sono, forse, motivazioni religiose? Ma quanto potrebbe esser vero per il Levitico non lo è per il mondo musulmano.
In origine, il maiale venne addomesticato per la sua carne, ma il maiale non ingrassa se mangia erba e arbusti e la sua alimentazione deve essere integrata. Gli Israeliti e gli altri abitanti della zona reputarono più conveniente allevare ruminanti, che si cibano di erba, ottenendo carne e latte, senza dover spartire col bestiame il raccolto, riservato solo all’alimentazione degli uomini. L’apparato termoregolatore del maiale, inoltre, non era adatto al clima caldo e torrido: il maiale, infatti, si rotola nel fango perché non ha altro modo per rinfrescarsi, dal momento che le setole non lo proteggono dal sole e non suda.
Allevare maiali nel Vicino Oriente era, quindi, troppo costoso: il tabù è, allora, la conseguenza di fattori ambientali, tanto che nelle zone in cui l’allevamento dei maiali era «pilastro del sistema agricolo tradizionale, l’Islam non riuscì mai a conquistare la maggioranza della popolazione» (M. Harris).
Nel sistema alimentare indiano, sono, invece, sacri i bovini.
I testi più antichi dell'Induismo non avevano questo senso di sacralità nei confronti delle vacche, ma questo periodo terminò quando, a seguito dell'incremento demografico e della sempre maggiore necessità di spazi coltivati, i pascoli si ridussero e l'antica vita semipastorale si trasformò in agricola: il bestiame, concorrenziale all'uomo nello sfruttamento degli spazi, diminuì numericamente e acquistò maggior valore, diventando prerogativa delle caste più elevate.
Le caste inferiori divennero, così, ostili ai sacrifici degli animali, di cui non avrebbero potuto godere in alcun modo e che rappresentavano, quindi, la summa dei privilegi dei potenti.
Su questo terreno fertile, si innestò il Buddhismo, religione contraria all'uccisione e al sacrificio cruento, che rifletteva il sentire della gente comune: «Per nove secoli, buddhismo e induismo lottarono per conquistare stomaco e cervello del popolo indiano». La vittoria dell’Induismo segnò la scelta della non violenza, i bovini divennero alleati del regime politico e fu adottato un sistema agricolo più produttivo: i buoi, che raramente si cibano di prodotti dell’agricoltura o pascolano su terre che potrebbero essere coltivate, vengono utilizzati per l'aratura e il lavoro nei campi e il loro concime serve per fertilizzare la terra o come combustibile.
Latte e sterco compensano i loro costi di mantenimento: il tabù della carne bovina, in questa prospettiva, consente di conservare intatto il patrimonio zootecnico il più a lungo possibile, prevenendo dalla formazione di un grande mercato di carne indiana, interno e internazionale, che farebbe lievitare il prezzo dei bovini indiani, destinando le risorse agricole all'allevamento di animali da carne.
Lo stesso Gandhi ebbe a dire che la deificazione della vacca in India era inevitabile, in quanto «era la dispensatrice dell'abbondanza. Non si limitava a fornire il latte, bensì rese semplicemente possibile l'agricoltura... Come compenso delle contromisure indù atte a impedire il riemergere di abitudini alimentari carnivore particolarmente dispendiose dal punto di vista dell'energia e foriere di divisione sociale, la vacca rende possibile un’agricoltura che rende possibile la vita umana».
Sono allora le leggi di mercato che presiedono alle scelte del gusto: perché negli Stati Uniti la carne di cavallo viene prodotta, ma non viene consumata? Perché nel mondo occidentale non si mangiano insetti? Forse perché noi non abbiamo mai conosciuto le infestazioni delle cavallette o le invasioni di altri animali dannosi alle coltivazioni?
Perché ci si astiene dai pet? Perché i pet sono “persone per procura” o perché sono fonti di cibo poco efficienti? La risposta è, forse, in quella teoria del foraggiamento, per cui l'abbondanza di specie ruminanti di alto livello li tiene lontani dalla nostra dieta. Questa, l'antropologia.
Ma io penso al vecchio Argo, nella lunga attesa di Ulisse: il cane che era il primo alla caccia e che il costante Odisseo un giorno nutrì di sua mano, è simbolo di fedeltà e di dedizione, nonostante l'incuria e la negligenza di altri esseri umani.
Regine dei giardini, le gatte di Stefano Benni e quelle di Tasso; Febo, cane metafisico, color di luna, compagno della vita di Curzio Malaparte: interlocutori muti e attenti nel silenzioso e anonimo quotidiano della terza età, educatori e amici.
Sacri, per il loro carattere extraumano, ma soprattutto per quell'aura di eternità che pareva vincere il passare del tempo; capaci di sconfiggere l'uniformità del paesaggio, aliando nel cielo o scivolando ai margini del deserto, trascendendo la loro stessa natura.
Arione e il delfino, Nettuno trasportato dagli ippocampi, Pegaso e Bellerofonte; elefanti e centauri che consacrano il proprio corpo agli esseri umani.
Per l'ultimo viaggio, l'uomo dell'Egitto antico amava portare con sé il proprio animale; pronto ad affrontare un'altra vita nell'aldilà, avrebbe voluto circondarsi di tutti gli affetti che avevano confortato la sua esistenza terrena: per questo, anche i piccoli animali mummificati venivano ospitati sulla barca sacra, con cui il defunto intraprendeva questo percorso notturno, inseguendo il sole nel tenebroso mondo dell'aldilà, con i suoi terrori e i suoi pericoli, per raggiungere Osiride, dio e giudice dei morti.


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