Medicina e ricerca

Le sfide della ricerca: diagnosi pre clinica e trattamento precoce

di Claudio Mariani (professore ordinario di Neurologia dell’Università di Milano e direttore Unità di Neurologia - Ospedale Sacco di Milano)

S
24 Esclusivo per Sanità24

La Malattia di Alzheimer è la più comune forma di demenza (60-70% dei casi) e costituisce uno dei maggiori problemi di salute pubblica. Si registrano infatti circa 8 milioni di nuovi casi all'anno e gli studi epidemiologici suggeriscono che ci troviamo agli albori di una epidemia globale della patologia. Il numero di persone affette da varie forme dementigene infatti sembra destinato a raddoppiare ogni 20 anni. La Malattia di Alzheimer è caratterizzata dalla lenta perdita di cellule nervose (neurodegenerazione), prevalentemente nelle aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte nei processi di memorizzazione, ma anche in altre funzioni mentali, causando una progressiva perdita di autonomia nelle attività della vita quotidiana. Al centro del processo patologico vi è l'accumulo di proteine all'interno (proteina tau) e all'esterno delle cellule nervose (proteina beta-amiloide).
Il processo patologico inizia molti anni prima della manifestazione dei primi sintomi clinici, che appaiono quando sono esaurite le capacità di riserva cerebrale e rappresentano uno stadio già avanzato della neuro-patologia. Sono conosciuti una serie di fattori genetici che possono causare o favorire la manifestazione della malattia: sono mutazioni o duplicazioni dei geni coinvolti nella produzione della proteina beta-amiloide. Inoltre, una particolare isoforma di una proteina che trasporta il colesterolo nel sangue (apolipoproteina Ee4), è associata a un maggiore rischio di sviluppare la malattia.

La diagnosi della malattia in genere è clinica. Un aspetto cruciale consiste nell'accertamento dei disturbi cognitivi tramite la somministrazione di una batteria testistica validata. In particolare, è necessario evidenziare un disturbo della memoria cosiddetta ippocampale che è quella deputata all'apprendimento di nuove informazioni. Il mio gruppo ha recentemente validato un test neuropsicologico specifico per la precoce identificazione di tale disturbo mnesico (Free and Cued Selective Reminding Test).
In un recente lavoro, è stata proposta una revisione dei criteri diagnostici di ricerca per la Malattia di Alzheimer che ha confermato l'importanza del riconoscimento del disturbo di memoria ippocampale.
Sulla base di questi nuovi criteri, inoltre, per poter fare diagnosi di Malattia di Alzheimer è necessaria l'evidenza di patologia di tipo Alzheimer in-vivo, dimostrata dalla positività ad almeno uno dei cosiddetti “biomarcatori”: nel fluido cerebrospinale devono essere evidenziati livelli anormali di proteine cerebrali (una riduzione della proteina beta-amiloide e un aumento della proteina tau) oppure deve essere riscontrato un aumento della captazione dei radiotraccianti per l'amiloide all'esame PET (Tomografia a Emissione di Positroni amiloidea).

Nonostante sia in corso da 20 anni con ingenti finanziamenti pubblici e privati una ricerca intensissima con l'obiettivo di interferire con la produzione di beta-amiloide tramite inibizione degli enzimi che controllano la sua produzione (beta-secretasi, gamma-secretasi) o con i fattori che possono influire sul suo accumulo nella corteccia cerebrale, fino ad oggi questo non si è tramutato in alcuna terapia disponibile, soprattutto per i considerevoli effetti collaterali dei farmaci in via di sviluppo. Anche gli approcci immunologici ('vaccino'), inizialmente molto promettenti in modelli animali, sono stati abbandonati dopo la manifestazione di una serie di complicanze (meningo-encefaliti) in alcuni pazienti trattati.
Le terapia disponibili attualmente sono rappresentate dai cosiddetti inibitori delle acetilcolinesterasi, (donepezil, galantamina, rivastigmina) la cui efficacia, seppur modesta, è stata dimostrata in studi clinici che dimostrano un possibile rallentamento della progressione della malattia. Questi farmaci comportano un aumento dei livelli cerebrali di acetilcolina, un neurotrasmettitore importante per la memoria. Un altro farmaco attualmente in commercio è la memantina, che agisce su una particolare classe di ricettori del neurotrasmettitore glutammato. Anche questa molecola, pur non modificando la malattia in atto, permette di rallentare la progressione nelle fasi più avanzate di decadimento cognitivo.

L'interesse principale della ricerca è attualmente rivolto alla prevenzione della patologia, che è caratterizzata da una lunga fase preclinica che dura fino a 20-30 anni. Come il recente Piano Nazionale Demenze ha evidenziato, i sette fattori di rischio potenzialmente modificabili associati all'insorgenza della demenza di Alzheimer sono: il diabete, l'ipertensione, l'obesita', il fumo, la depressione, la bassa scolarizzazione e l'inattivita' fisica.
Molta attenzione oggi viene dedicato al 'Mild cognitive impairment' (MCI, deterioramento cognitivo lieve), che è caratterizzato solo da disturbi di memoria (MCI amnestico) oppure da disturbi lievi in altre sfere cognitive (MCI non amnestico) e che può rappresentare uno stadio precoce della malattia. Poiché non tutte le persone con disfunzione cognitiva lieve sviluppano una demenza, attualmente si cerca di capire quali di queste persone siano maggiormente a rischio. Riconoscere e trattare precocemente (idealmente in fase preclinica) la malattia di Alzheimer è uno degli obiettivi principali della ricerca.


© RIPRODUZIONE RISERVATA