Medicina e ricerca

Malattia mentale, cure e dignità oltre i lacci della contenzione

di Silvia Jop (Coordinatrice redazionale, lavoroculturale.org)

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Cinghie, lacci, fascette, polsini, cinture, corpetti, bretelle, sedie, oppure dosi massicce di psicofarmaci: sono tanti i modi che abbiamo inventato per contenere un essere umano, per trasformare una persona in un corpo domato, nudo di abiti e privato della sua storia, come quello di una bestia furibonda che va abbattuta.

Quelli utilizzati a partire dalla fine del Settecento nella psichiatria manicomiale per trattenere una persona in un luogo o in una condizione contro la sua volontà, sono oggetti, o addirittura attrezzi, che portano con sé l’odore di un’atmosfera e così del suo rumore. Una sorta di nenia, di cantilena puzzolente che si aggrappa ai sensi, muti, entrando dagli occhi di chi ne è spettatore e dalle mani che all’occorrenza li impugnano. È significativo realizzare come un protocollo di pratiche e architetture che si immaginano trinceate in un tempo ormai remoto e all’interno di strutture, come i manicomi, che si pensano superate, siano in realtà parte integrante del nostro presente.

A questo proposito, è il nostro cinema documentario a venirci in soccorso e a offrirci una sintesi dell’epoca in cui siamo. Lo fanno le “87 Ore”, raccolte da Costanza Quatriglio in ottantasette minuti disposti tra loro come un panopticon che si sostituisce alla nostra retina, nel riunire con grande abilità le immagini provenienti dalle telecamere del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Vallo della Lucania. Lì Francesco Mastrogiovanni, maestro di scuola elementare, è rimasto legato a un letto in seguito a un trattamento sanitario obbligatorio che gli è costato la vita.

È la bestialità dell’uomo a esploderci addosso. Ed è la medesima bestialità, in questo caso acquisita come dato di fatto, ma mai mostrata, a spingere il regista Pietro Marcello nel film“Bella e perduta” a rifuggire lo sguardo negli scampoli d’umanità presenti negli occhi umidi di un piccolo bufalo, scortato da Pulcinella, mentre attraversa il sud del Paese in cerca della salvezza svanita. Lo sguardo quasi commossi di questo animale, ultimo testimone della grazia e della cura che non sappiamo più garantire e concedere all’umanità di cui siamo parte e così alla terra che ci ospita, accanto al corpo frammentato in tanti grossi e ruvidi pixel di Mastrogiovanni, ci mettono davanti a uno specchio. Uno specchio che in realtà pochi hanno il coraggio di fronteggiare, perché parla di noi, parla della degenerazione della cultura da cui proveniamo e di quel seme che continuiamo a nascondere dietro agli abiti bianchi e intonsi delle grandi istituzioni di cura e assistenza che costellano l’Italia. Assieme ai Servizi psichiatrici infatti, a essere teatro di contenzione ancora oggi sono gli ospizi per gli anziani, le cliniche neuropsichiatriche per gli adolescenti, i centri di disintossicazione per tossicodipendenti, gli istituti per i disabili, le carceri per i carcerati e i centri di identificazione e espulsione per i migranti.

Ogni luogo ha una sua popolazione che rischia quotidianamente di subire forme di reclusione e contenimento. Si tratta di soggetti dal profilo giuridico indebolito, le cui facoltà di scelta vengono messe in discussione in una forma di apriori che anticipa la loro istituzionalizzazione. Questo indebolimento previo delle soggettività, che dunque introduce le persone a un ingresso in un’istituzione a volte volontario/altre forzato, già consente agli interlocutori/tecnici/operatori, di esercitare in quel territorio un’autorità assoluta e a senso unico.

A fare da anticamera a questo processo di legittimazione della supremazia di uno sull’altro e quindi all’esercizio della coazione, c’è la storia della medicina classica di stampo biologista dove la relazione terapeutica, se non in rari casi, non ha avuto diritto di cittadinanza in Italia fino agli anni Sessanta.

I contesti sanitari infatti, con i loro protocolli e i loro dispositivi, sono stati nei secoli uno spazio indiscusso di legittimazione dell’uso della contenzione. È così che l’atto del contenimento fisico viene decontestualizzato dal terreno della violenza per essere inserito in quello della necessità della cura. In virtù della difesa del sé da sé, degli altri dal sé - violento - i corpi dunque sono stati e vengono tutt’oggi contenuti, ammansiti, mortificati, domati. A oggi, l’ultima delle poche ricerche di taglio nazionale di riferimento è risalente al 2005 ed è stata realizzata dell’Istituto Superiore di Sanità. In questo documento si segnala che nell’80% dei servizi si ricorre alla contenzione per sedare i pazienti. Le cosiddette “buone pratiche” invece corrispondono al mancante 20 per cento.

Sebbene la contenzione non sia normata da una legge, e sebbene disponiamo di due articoli della Costituzione, il 13 e il 32, che impediscono l’uso della forza ai fini della negazione della libertà individuale, molte delle linee guida dei Servizi di Salute mentale prevedono la possibilità di farvi ricorso. Questo significa che assieme all’applicazione di un diritto vivo orientato al rispetto della persona, è necessario sviluppare pratiche concrete che sovvertano un impianto culturale governato dall’uso della violenza legittimato dalla paura di non sapere come altro fare.

Fare altrimenti si può. Il 20% di strutture in cui si registra un’assenza del ricorso a tecniche contenitive, dove nemmeno la scusa del taglio dei finanziamenti fa scuola, si registra anche un livello di assistenza, cura, integrazione sul territorio di alta qualità.

… E tu slegalo subito . Una campagna nazionale per l’abolizione della contenzione in Italia
Nel 2015 la casa editrice Alphabeta Verlag ha pubblicato, per la collana 180, un testo della psichiatra Giovanna Del Giudice dal titolo “…e tu slegalo subito. Sulla contenzione in psichiatria”. Il testo raccoglie la soggettiva dell'autrice, che è stata alla direzione del Dipartimento di Salute Mentale di Cagliari dal 2006 al 2009.
Il racconto si apre e al contempo si muove attorno a un “incidente”: Giuseppe Casu muore il 22 giugno del 2006 sul letto dell'SPDC dell'Ospedale civile di Is Mirrionis dove è rimasto legato al letto per sette giorni di seguito, dopo il suo ricovero in Trattamento Sanitario Obbligatorio.
La necessità di svelare il paradigma che ha reso possibile in un contesto che avrebbe dovuto accogliere, seguire, assistere e reinserire, una morte tanto atroce, è l'istanza primaria che muove una pagina dopo l'altra di questo libro prezioso, fino ad arrivare al lancio della campagna “e tu slegalo subito” promossa dal Forum Salute Mentale e presentata il 21 gennaio scorso in una sala del Senato dietro al Pantheon di Roma.

Per informazioni, consultare il sito http://www.slegalosubito.com
Con il sostegno, tra gli altri, della Fondazione Franca e Franco Basaglia, di Psichiatria Democratica, del Gruppo Abele, di Unasam, della Conferenza Permanente per la Salute Mentale nel Mondo Franco Basaglia, della Cgil, di A buon diritto e dei Comitati Verità per Giuseppe Casu e Francesco Mastrogiovanni, morti entrambi di contenzione, la campagna denuncia l'uso delle pratiche violente in ambito terapeutico. Dichiara così la contenzione “strumento inumano e degradante assimilabile alla tortura”, definendola “atto illecito anti terapeutico e non etico”.
La campagna si pone dunque l'obiettivo di avviare percorsi di sensibilizzazione e monitoraggio in tutto il paese, di svelare e denunciare l'uso di queste pratiche contenitive e lesive, ma anche di promuovere culture diverse testimoniando che è possibile un altro modo di assistere l'altro, nel rispetto della dignità e dei diritti della persona.


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