Medicina e ricerca

La ricerca indipendente Aifa dà i suoi frutti più ricchi nelle malattie rare

di Antonio Addis (dipartimento di Epidemiologia Regione Lazio)

Quando nel 2005 fu lanciato il programma di ricerca indipendente, da parte dell'allora Agenzia Italiana del Farmaco, ci furono molte perplessità rispetto al tipo di risultati che un'iniziativa del genere avrebbe potuto creare. Lo scetticismo maggiore riguardava la reale ricaduta di un investimento che tecnicamente avrebbe dovuto aiutare a perfezionare la conoscenza su nuove terapie farmacologiche, in particolare in ambiti quali le malattie rare, dove le aziende e gli enti regolatori lamentano rispettivamente la difficoltà di realizzare studi clinici e di avere dati utili alla valutazione dell'efficacia e sicurezza. Per tale ragione, le malattie rare rappresentano proprio una delle aree prescelte per il finanziamento derivato da un fondo pari al 5% dell'intera spesa che le Aziende farmaceutiche utilizzano per l'attività promozionale. Purtroppo dal 2008 gli studi su quest'area non sono stati più finanziati e tra le spiegazioni più o meno ufficiali vi è stato il ricorrente dubbio che l'investimento non fosse capace di restituire dati di qualità e clinicamente validi per il Servizio Sanitario nazionale.

Un recente studio pubblicato sulla rivista internazionale di riferimento sulle malattie rare Orphanet journal of rare disease (1) e curato da chi allora curava il programma Aifa (Giuseppe Traversa) permette oggi di rispondere in modo approfondito a molti dubbi. Infatti, tutti i risultati prodotti dagli studi finanziati , i tempi di pubblicazione, l'impact factor dei singoli articoli e la rilevanza dei risultati raggiunti per la pratica clinica sono stato analizzati in dettaglio.

Il quadro che ne esce è molto confortante. Dal punto di vista della qualità dei risultati l'80% degli studi ha visto la luce su riviste peer review con una mediana dell'impact factor di 5.4 e un range che va da 1.4 a 55.4. In generale, le metodiche adottate hanno preferibilmente riguardato studi controllati, addirittura con randomizzazione (63% degli studi) o con controllo attivo (35%). Certo, non si è trattato di studi che possono dare i loro frutti nel giro di pochi mesi. Il follow-up dell'analisi ha dovuto mettere insieme 10 anni di osservazione per rilevare che la semina ha dovuto aspettare un tempo mediano di 79 mesi prima che potessero essere raccolti i frutti di pubblicazione. Questa è una condizione che un'iniziativa privata probabilmente non può permettersi e dove il pubblico riesce a dare il maggior contributo. In ogni caso, il dato più rilevante riguarda il numero di studi che possono essere considerati di una rilevanza clinica tale da essere catalogati tra chi ha pubblicato dati conclusivi (30%) con un aggiunta di un ulteriore 10% di studi che addirittura possono potenzialmente modificare la storia clinica della patologia o rappresentano un nuovo standard assistenziale.

Le conclusioni dello studio rappresentano un forte sostegno a chi oggi volesse riprendere l'iniziativa di finanziare la ricerca sulle malattie rare con fondi pubblici. Quest'area della ricerca, se messa nelle condizioni giuste, può evidentemente produrre dati di alta qualità con una ricaduta importante sulla pratica clinica e un ritorno essenziale in un campo dove l'innovazione rischia di non essere valorizzata nel modo corretto a scapito dei pazienti, del Servizio Sanitario Nazionale ed anche delle Aziende che lo propongono.

1. Traversa G, Masiero L, Sagliocca L and Trotta F Italian program for independent research on drugs: 1 year follow-up of funded studies in the area of rare diseases Orphanet Journal of Rare diseases 2016, 11:36 DOI 10.1186/s13023-016-0420-4


© RIPRODUZIONE RISERVATA